Elisa Savoi, il Riformista 16/10/2009, 16 ottobre 2009
L’ASTICE VIVO NEL GHIACCIO DIVIDE I GIUDICI
A Milano un giudice della quarta sezione penale ha stabilito che conservare vivi gli astici nel ghiaccio non è reato. Tutto era cominciato nel novembre del 2007, quando il pm Giulio Benedetti, specializzato in reati alimentari, aveva chiesto il rinvio a giudizio dei proprietari di un ristorante. Il motivo: gli astici erano conservati vivi nel ghiaccio e questo era da considerarsi un maltrattamento. Il reato però non sussiste, si legge nella sentenza, perché «la consuetudine prevede che la cottura avvenga quando l’astice è ancora vivo». Eppure nel 2006 un giudice di Vicenza fu di parere opposto e condannò un ristoratore a pagare una multa di 688 euro perché gli astici erano conservati vivi nel ghiaccio.
Di episodi paradossali ce ne sono molti. Nella sentenza 46784 del 21 dicembre 2005, la Corte di Cassazione ha voluto precisare un aspetto della legge 157/92 (quella sulla caccia): «Costituisce ipotesi di sevizia configurante maltrattamento l’utilizzazione come richiamo per la caccia di una cesena viva». Cacciare animali non è maltrattamento, lo è usare un richiamo vivo (un piccolo uccello come la cesena). A Roma, a luglio, una coppia è stata condannata a pagare una multa di 100 euro perché teneva in casa un coniglio nano, in virtù di una legge del 1946. Il caso è stato svelato dal Centro per i Diritti del Cittadino. «E’ vietato far circolare nell’interno dell’abitato, senza speciale permesso dell’autorità comunale, animali di qualsiasi specie non attaccati ai veicoli e di lasciar vagare galline, oche, anitre ed altri animali da cortile. vietato inoltre nell’interno dell’abitato l’allevamento e la tenuta di detti animali ancorché chiusi o recintati in appositi pollai o gabbie o conigliere», così la legge.
C’è poi l’ululato. Nel 2006 un giudice di pace di Rovereto ha stabilito che abbaiare ”è un diritto esistenziale” del cane. Più ambigua la sentenza 1394 del 6 marzo 2000 della Corte di Cassazione: affinché sia considerato un disturbo della quiete pubblica deve «incidere negativamente sulla tranquillità di un numero indeterminato di persone” e non su una sola».