Emanuele Novazio, La stampa 15/10/2009, 15 ottobre 2009
LA MIA ARABIA IRREQUIETA
Qualche guardia del corpo all’ingresso, una sorveglianza discreta, l’impressione di entrare nella residenza di un manager europeo di rango. Invece la palazzina ai margini del quartiere diplomatico, un edificio a due piani che nel buio precoce di Riad sembra senza colore, è patrimonio della famiglia reale saudita. Ad abitarla è un discendente diretto del fondatore della dinastia del quale - al fondo di un elaborato sistema onomastico che preferisce non venga citato per esteso - condivide il patronimico, Al Saud.
il principe in persona - un uomo mobilissimo e vivace, la cui pinguedine è accentuata dal «ghutra» bianco che lo fascia fino ai piedi - ad accogliere gli ospiti e a introdurli nell’atmosfera di normalità borghese che trasmettono queste stanze eleganti e sobrie adibite a foresteria e a ufficio, oltre che a sede del neonato club gastronomico per il quale il padrone di casa dimostra un interesse sempre più spiccato ed entusiasta.
Non è l’unica sorpresa. Accarezzandosi con garbo disinvolto la «thobe» a quadretti bianco-rossi che gli copre il capo e le spalle, Al Saud racconta con passione un’Arabia irrequieta e tesa al cambiamento, anche se frenata dagli impicci della tradizione. Ricorda di quando, finiti gli anni di formazione nelle scuole e nelle università europee e ritornato in patria, ebbe la tentazione di andarsene di nuovo. Ma spiega di non essersi mai pentito della decisione di restare in un Paese dove il futuro è una sfida, e tutto o quasi è in movimento: a cominciare dalla battaglia per i diritti umani, troppo spesso ancora violati, e da quella per l’emancipazione della donna, subordinata ancora pesantemente all’ordine maschile.
Il principe ha alle spalle una fortunata carriera d’imprenditore, i figli studiano all’estero, e dopo molte resistenze la moglie (laureata) ha avviato un’attività commerciale della quale è soddisfatta almeno per metà. Il suo ottimismo corrisponde alla realtà o è viziato dalla parzialità del privilegio? Probabilmente l’una cosa e l’altra: l’Arabia resta un Paese nel quale si può entrare attraverso molte porte, ognuna aperta su una prospettiva differente.
Alcuni dati sono evidenti, anche se di lettura controversa: Riad ha un ruolo di assoluta preminenza nel mercato globale del petrolio, del quale possiede un quarto delle riserve mondiali. Ha le risorse per estrarre fino a 12 milioni e mezzo di barili al giorno, quanto basta per soddisfare il 15 per cento della domanda complessiva, grazie a investimenti per 100 miliardi di dollari. E la prolungata crescita dei prezzi del greggio, interrottasi soltanto nella seconda metà dell’anno scorso, ha consentito l’accumulo di una enorme liquidità in valute forti, oltre alla riduzione del debito dal 100 al 20 per cento del prodotto interno lordo.
Eppure l’Arabia - da 14 anni affidata a re Abdallah, un ottantenne conservatore capace di rimuovere ministri e leader religiosi contrari ai suoi timidi tentativi di riforma - resta uno dei Paesi più poveri del Golfo, per quanto riguarda il reddito pro capite. La crisi globale non l’ha risparmiata: la contrazione dell’economia quest’anno sarà dell’1 per cento, dopo una crescita del 4,5 per cento registrata nel 2008: quasi la metà del suo prodotto interno lordo dipende dal petrolio, che garantisce il 90 per cento degli introiti legati all’export, una forza che la crisi ha trasformato in debolezza. L’inflazione erode i redditi, incidendo soprattutto su alimentazione e affitti. E oltre il 60 per cento dei suoi 24 milioni di abitanti ha meno di 25 anni: la disoccupazione, ufficialmente al 10 per cento, colpisce soprattutto i giovani. Alimentando un malcontento sul quale hanno facile presa le suggestioni dell’estremismo fondamentalista, del quale il Paese musulmano di tradizione wahabita ha più volte sperimentato la determinazione.
Il rischio è che, senza riforme capaci di diversificare l’economia e di intercettare la frustrazione di questa massa giovanile - migliorandone etica del lavoro e formazione, ma anche convincendo ad assumere manodopera locale, invece di quella a basso costo reclutata nel Sud del mondo, 6 milioni e mezzo di lavoratori - l’instabilità sociale eroda un Paese chiave per gli equilibri di un’area di crisi che si estende dalla Palestina all’Afghanistan e all’Iran. Ha ragione l’amico di Al Saud che, vantando il cauto coraggio di Abdallah, prevede una modernizzazione accelerata del Paese? O chi gli ribatte, il sorriso un po’ forzato, che finché c’è petrolio in abbondanza il cambiamento nel Regno Saudita è fantasia?Rilanciare «in modo sostanziale» la collaborazione economica, confermandosi primo partner europeo dell’Arabia Saudita. E consolidare la collaborazione con un Paese chiave per gli equilibri del Grande Medio Oriente, in particolare per quanto riguarda la soluzione delle crisi libanese, iraniana e afghana. Questi i due obiettivi della visita a Riad del ministro degli Esteri Frattini (foto), che si è conclusa ieri dopo un incontro con re Abdallah e il capo della diplomazia saudita Al Feisal. Frattini ha copresieduto la Commissione mista italo-saudita - che non si riuniva da sette anni- alla quale è affidata la speranza di una sostanziosa espansione della nostra presenza economica nel Paese. «L’Italia può dare un contributo importante al piano di investimenti» deciso dal governo saudita, ha commentato Frattini. Presto sarà a Roma il presidente dell’Istituto saudita per la promozione degli investimenti. Sempre a Roma, lunedì prossimo, si riunirà il Consiglio di cooperazione del Golfo.