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 2009  ottobre 15 Giovedì calendario

CHE COSA FARE CON L’IRAN LE DUE STRADE POSSIBILI


La sua risposta a un lettore sull’intervento all’Onu di Ahmadinejad mi appare stupefacente soprattutto nel commento positivo su alcuni passaggi del discorso, questi, davvero, «infantili e demagogici». Comunque nelle sue frequenti difese della politica estera dell’Iran lei non ci ha mai spiegato con chiarezza che cosa pensi del regime degli Ayatollah e come andrebbe fronteggiata la loro, apparentemente intrattabile, volontà di potenza in un contesto geopolitico estremamente infiammabile.
Lucio Zagari
lzagari@augustea.com

Caro Zagari,
Non ho «difeso» la poli­tica estera iraniana, ma ho cercato di spie­garla e soprattutto di mettere in evidenza gli argomenti di Teheran a cui occorre dare una risposta ragionevole. E vengo subito alle sue doman­de.
Il regime degli Ayatollah non è in crisi e continua ad avere il sostegno di una parte considerevole del Paese. Ma esistono all’interno del siste­ma politico forti tensioni: fra la società rurale e quella urba­nizzata, fra i giovani formati nelle università e l’apparato politico-amministrativo del­le istituzioni, fra coloro che desiderano adattare il regime agli imperativi della moderni­tà e coloro che preferiscono conservarne la purezza e il ri­gore imprigionandolo all’in­terno di una fortezza assedia­ta. I primi sostengono che il Paese deve uscire dall’isola­mento e affrontare il dialogo diplomatico con gli Stati Uni­ti. I secondi diffidano di qual­siasi apertura. Ma gli uni e gli altri hanno sulla questione nucleare la stessa posizione. L’uranio e il suo arricchimen­to sono stati l’unico tema del­la recente campagna elettora­le su cui Ahmadinejad e i suoi oppositori si somigliava­no come gocce d’acqua.
Vi sono stati anni, all’epoca del presidente Khatami, in cui l’America avrebbe potuto rafforzare le «colombe» racco­gliendo i segnali di apertura che arrivavano in quel mo­mento da Teheran. Ma Bill Clinton ha esitato e George W. Bush ha fortemente raffor­zato il campo dei falchi collo­cando l’Iran, insieme all’Iraq e alla Corea del Nord, nel pic­colo gruppo degli «Stati cana­glia ». Il discorso con cui il pre­sidente americano ha adotta­to questa linea risale agli inizi del 2002, poco più di un anno prima dell’invasione del­­l’Iraq. Era inevitabile che mol­ti iraniani si chiedessero in quel momento quando sareb­be arrivato il loro turno.

Che cosa fare oggi? certa­mente possibile scegliere, co­me vorrebbero i falchi dell’Oc­cidente, la linea dura: attizza­re i fuochi dell’opposizione interna, pretendere che l’Iran rinunci al suo programma nu­cleare e adottare, se non dà ri­sposte soddisfacenti, le «san­zioni paralizzanti» di cui ha parlato il segretario di Stato Hillary Clinton nelle scorse settimane. Ma gli ammoni­menti e le minacce di una grande potenza non possono essere soltanto parole. Se il re­gime non verrà abbattuto da­gli oppositori e l’Iran conti­nuerà ad arricchire l’uranio, gli Stati Uniti dovranno pren­dere in esame, prima o dopo, la prospettiva del ricorso alle armi. Con quali effetti per la stabilità della regione e di quei Paesi (Libano, Siria, Pale­stina, Iraq, gli altri Stati del Golfo Persico) in cui l’Iran e l’Islam sciita hanno una forte presenza? Pur continuando a parlare di sanzioni il presiden­te americano sembra avere ca­pito che questa seconda stra­da è molto pericolosa. E ha preferito imboccare quella del negoziato diretto. Con ri­sultati che, a giudicare dall’in­contro di Ginevra, sono per ora incoraggianti.