Stefano Citati, Il Fatto 15/10/2009;, 15 ottobre 2009
IL PADRINO DI MOSCA
Vyacheslav Kirillovic Ivankov detto ”il giapponese” è stato seppellito e da ora la mafia russa non sarà più la stessa. La notizia non è tanto che al suo funerale c’era una folla di circa mille persone e 150 uomini delle truppe speciali del governo russo per garantire la sicurezza: la tomba nel cimitero di Vagankoskoie era stata prima controllata dagli artificieri. Ma che la sua morte – il 9 ottobre, dopo il ferimento da parte di un cecchino all’uscita di un ristorante moscovita in estate – ha ”cambiato la geopolitica criminale non solo russa, ma forse europea”, spiegano al Fatto delle fonti informate. Perché il 69enne nato in Georgia da genitori russi e con gli occhi a mandorla era l’uomo capace di mantenere gli equilibri mafiosi, soprattutto all’interno delle carceri, dove è detenuto gran parte del potere delle organizzazioni criminali russe. Del resto era stato in carcere - nel 1974, alla Butyrka, la maggiore prigione di Mosca dove per decenni sono stati rinchiusi criminali comuni e criminali politici – che ”il g iapponese” era stato ”incoro n a t o ”, ovvero premiato dalla fratellanza criminale con il titolo vor v zakone (ladro nella legge) uno dei gradi della gerarchia criminale. La sua carriera sovietica si interrompe nel 1991, quando si trasferisce con un normale visa d’affari negli Stati Uniti dove i sui business in libertà durano pochi mesi: in giugno è arrestato e incarcerato fino al 2005, quando viene estradato in Russia. In realtà, pur avendo passato la maggior parte del suo tempo in carcere, la sua attività non si è mai fermata, perché proprio dal carcere i capi del crimine organizzato russo controllano gli affari, stringono legami e mantengono il controllo sugli affiliati. Ed era proprio questo il cuore del potere di Ivankov: l’influenza e l’estesa rete di conoscenze nel vastissimo arcipelago carcerario russo, dove almeno 30mila prigionieri appartengono in qualche modo e con qualche grado al mondo criminale. ”Adesso quella rete non ha più una mano che la str inge”, rischia in qualche modo di andare in frantumi e chi vuole mantenere il controllo della criminalità nell’ex impero sovietico deve rapidamente trovare il modo di ”r ipristinare la fiducia che è andata perduta con la morte di I va n kov ”. Dopo il ferimento del Giapponese il 29 luglio i vertici mafiosi moscoviti avevano trovato un sostituto, qualcuno che si sacrificasse nel ruolo di riunificatore e garante dei vari gruppi: la scelta è caduta su un uomo più anziano di Ivankov - identificato come Aslan Ussoian, chiamato ”nonno Has- DAL MONDO san”, presente ai funerali - che dunque deterrà il potere conferitogli non troppo a lungo e questo fa pensare che una faida per la successione si potrebbe presto aprire. Intanto l’attacco contro il capo riconosciuto della mafia russa - molto probabilmente compiuto dai rivali georgiani, per via della sua politica ”nazionalista”, ovvero di emarginazione delle mafie etniche georgiane o altrimenti caucasiche – ”è stato rapidamente vendicato: chi ha sparato è già stato ucciso”, sono sicure nel affermare fonti informate del mondo criminale moscovita. All’eredità ”politica” di Ivankov guardano con attenzione anche i servizi segreti russi, presenti ai funerali, secondo quando riportato dalle agenzie di stampa; la sua strategia di riunificazione della mafia russa contro le altre organizzazioni era stata avallata in qualche modo dall’Fsb, i servizi succeduti al Kgb: ed era voce comune che il Giapponese facesse gli interessi di diversi mondi economico-finanziari, ”spostando enormi somme di danaro da una parte all’altra”; adesso, con la sua morte ”queste enormi somme che scorrono da una parte all’altra, rischiano di fermarsi o di disperdersi, o di cambiare direzione” e sono in molti a voler seguire le direzioni che prendera n n o . Ivankov metteva in relazione, gestiva rapporti e uomini più che direttamente cifre e conti, tessendo relazioni e probabilmente facendo favori a varie parti, a chi entrava in contatto con lui e con i suoi simili, ed era riuscito a salire i gradini della gerarchia criminale negli anni ’80, finendo con il soppiantare la vecchia guardia della mafia russa – quella raccontata nei suoi riti e nel rigore dei ruoli dal giovane Nicolai Lilin, trasferitosi in Italia, in ”Un’educazione siberiana”, con riferimento all’insieme di regole, in carcere e fuori, e i cui segni esteriori erano (e continuano ad essere) i tatuaggi e i loro molteplici significati – e creare una nuova forma di organizzazione. La stessa che aveva provato a esportare anche oltre Oceano, in America, a Little Odessa, il quartiere newyorchese degli immigrati russi. Ma Ivankov non era un superpadrino, un capo che univa i diversi gruppi e che tutti riconoscevano come leader: era piuttosto una figura alla quale rivolgersi per accordi e intese che sarebbero poi state prese con altri. Certo anche se non un supercapo, Ivankov aveva le sue originalità e amava esibirle: si sa che era un patito dell’arte marziale giapponese del Ju-jitsu; che aveva pronta un’autobiografia scritta in carcere (’Contro il vento”) così come poesie per bambini.