Sissi Bellomo, Il Sole-24 Ore 15/10/2009;, 15 ottobre 2009
SCOMMESSA SUL PETROLIO IN IRAQ
Il successo dell’Eni, una delle prime compagnie petrolifere a rimettere piede in Iraq dopo la guerra, porta una ventata di ottimismo sulle prospettive di investimento nel paese mediorientale. Secondo gli analisti l’accordo grazie al quale il gruppo di San Donato milanese parteciperà allo sviluppo del maxi giacimento di Zubair - potrebbe accelerare la firma di ulteriori contratti con le major straniere: una svolta di importanza vitale per Baghdad, la cui economia dipende al 90% dal petrolio. L’effetto traino potrebbe estendersi anche al di là del settore degli idrocarburi, incoraggiando altre imprese – in particolare imprese italiane – ad avventurarsi sulle sponde del Tigri.
Il governo iracheno non chiede di meglio. La caduta dei prezzi del greggio (oggi dimezzati rispetto ai record del 2008), unita a una produzione stagnante intorno a 2,4 milioni di barili al giorno, ha colpito duramente le casse dello stato, che per far quadrare il bilancio dovrà ricorrere ai prestiti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.
Per Baghdad è tornato il momento di bussare alla porta degli investitori. La settimana prossima una delegazione di ministri, guidata dal premier Nouri al-Maliki in persona, volerà verso Washington per un nuovo tour promozionale, simile a quello di fine aprile a Londra e ad almeno un’altra decina di eventi organizzati dopo la caduta di Saddam Hussein. Il copione promette di ripetersi: centinaia di potenziali investitori (questa volta ne sono attesi oltre 800) affolleranno una sala conferenze, per sentirsi descrivere il "nuovo Iraq", un paese finalmente democratico, sempre più tranquillo, stabile e aperto nei confronti dei partner stranieri. Un quadro idilliaco, ma finora non del tutto veritiero e convincente, a giudicare dai risultati raggiunti da Baghdad.
Almeno nel settore petrolifero, l’interesse delle imprese è tutt’altro che tiepido. L’Iraq, con 115 miliardi di barili di riserve (le terze al mondo) tuttora in gran parte da sfruttare, è «la Mecca del greggio», come l’aveva definita qualche tempo fa l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. Tuttavia, a sei anni dalla fine della guerra, Baghdad non è ancora riuscita a rimettere in moto il settore, che necessita di interventi costosi anche soltanto per evitare il collasso delle infrastrutture. Il ministro del Petrolio, Hussein Shahristani, ha mire ambiziose: attirare investimenti stranieri per almeno 50 miliardi di dollari, con l’obiettivo di accrescere la produzione di greggio da 2,4 a 6 milioni di barili al giorno entro la fine del 2015 e potenziare la capacità delle raffinerie da 0,54 a 1,5 milioni di barili al giorno entro il 2017.
Quello con l’Eni – che insieme ai soci Occidental e Kogas si appresta a investire 10 miliardi nel paese – è tuttavia soltanto il terzo accordo raggiunto da Baghdad. La gara d’appalto organizzata in pompa magna lo scorso 30 giugno si era conclusa con un buco nell’acqua: un solo concorrente il consorzio tra Bp e la cinese Cnpc, in gara per Rumaila - si era piegato di fronte ai magri compensi offerti dal ministero del Petrolio. In precedenza, la stessa Cnpc aveva convinto gli iracheni a "riesumare" un accordo per il giacimento di Ahdab, sottoscritto ai tempi di Saddam.
Rispetto a giugno i termini con-trattuali proposti da Baghdad si sono ammorbiditi, assicura l’Eni. Tant’è vero che anche sul giacimento di West Qurna si sarebbe ormai vicinissimi a un accordo, con ExxonMobil o con la cordata rivale ConocoPhillips-Lukoil. Ma i recenti progressi nella trattative non cancellano del tutto i dubbi sull’esito della prossima asta, che il ministero dovrebbe bandire in gennaio (persino sulla data c’è ancora molta incertezza).
Di fronte alla possibilità di investire in Iraq, molte imprese preferiscono restare alla finestra. La sicurezza è migliorata, ma non abbastanza da abbassare i costi per la protezione del personale: attentati e rapimenti sono ancora frequenti e Baghdad ha appena richiesto il rientro di un contingente britannico, per proteggere il terminal petrolifero di Bassora. Inoltre ci sono molti altri problemi, addirittura più gravi secondo Patricia Haslach, coordinatrice dei programmi di assistenza degli Stati Uniti in Iraq: «La maggior parte delle compagnie non cita la sicurezza come il maggiore impedimento. In realtà citano piuttosto il clima relativo agli investimenti: problemi come il divieto ad essere proprietari di terreni, questioni relative ai contratti, agli arbitrati». Per non parlare della corruzione, un problema gravissimo, tanto da spingere l’Iraq al terzultimo posto nella classifica mondiale.
Haslach ricorda che gli Usa dal 2003 hanno fornito 52 miliardi di aiuti per la ricostruzione del paese. «Adesso la palla è nel loro campo. Bisogna che il governo si impegni a fare i dovuti cambiamenti». Primo tra tutti l’approvazione della legge sugli idrocarburi, attesa da anni. Ma non solo. Le nuove regole sugli investimenti stranieri, emendate nel 2006, prevedono ad esempio che i profitti si possano trasferire interamente all’estero. Peccato che in Iraq gli stranieri non possano aprire un conto in banca, né registrare a proprio nome un impresa.
In un paese così difficile, l’italica arte di arrangiarsi può forse costituire un vantaggio: le nostre imprese non hanno mai lasciato del tutto l’Iraq, nemmeno negli anni della guerra. E oggi l’Eni non è sola nello sfidare burocrazia, corruzione e pericoli. Con l’Iraq fanno affari anche molte altre società italiane ( benché in qualche caso, a distanza). Tra queste ci sono grandi imprese, come Fincantieri, che ha strappato una commessa della Marina irachena per 4 pattugliatori; o Fiat, che attraverso Cnh fornirà trattori. Ma anche coraggiose Pmi, magari anche del Mezzogiorno, come le catanesi Temix, Mandarin e Korec che hanno vinto un appalto da 13 milioni di euro nelle telecomunicazioni, grazie a un innovativo sistema ibrido che consente di offrire servizi di banda larga anche in paesi dalle infrastrutture disastrate • UN PAESE GIACIMENTO - Le opportunità
L’Iraq è oggi il13° produttore mondiale di greggio. Ma ha riserve per 115 miliardi di barili, le terze nel mondo dietro ad Arabia Saudita e Iran L’estrazione ha subìto un tracollo con la guerra del 2003.
Oggi la produzione è di 2,4 milioni di barili al giorno. Il regime di Saddam Hussein arrivava a 2,5 milioni nonostante le sanzioni internazionali Baghdad ha bisogno degli investimenti stranieri per rinnovare gli impianti: 50 miliardi di dollari per arrivare a sei milioni di barili al giorno entro il 2015, come vuole il ministro del Petrolio, Hussain al-Shahristani.