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 2009  ottobre 15 Giovedì calendario

TRE ARTICOLI SU ENI CHE INVESTE IN IRAQ - ENI, VIDI, VICI


1/ Il cane a sei zampe inseguiva il tesoro iracheno da 30 anni. Preso

Roma. A due giorni dall’accordo raggiunto tra Eni e governo iracheno per lo sfruttamento del giacimento di Zubair, la soddisfazione è il leitmotiv delle dichiarazioni pubbliche delle parti in causa. Soddisfazione innanzitutto da parte di Paolo Scaroni, amministratore delegato della società partecipata dal Tesoro, che in un’intervista al Financial Times di ieri sottolineava: ’Zubair è uno dei più importanti campi petroliferi del mondo. Uno dei pochi capaci di produrre più di un milione di barili di petrolio al giorno”. Anche se ciò avverrà solo a pieno regime, cioè nell’arco dei prossimi 7 anni, visto che a oggi sono appena 195 mila i barili che escono quotidianamente dal giacimento. ”L’Iraq è un obiettivo che ci poniamo da almeno 30 anni, uno di quei progetti con enormi potenzialità ” non ve ne sono più tanti nel mondo ” che possono fare la differenza anche per una grande società come la nostra”, dice al Foglio Claudio Descalzi, direttore generale della divisione Exploration & Production dell’Eni, che poi spiega: ”Ha contato sicuramente la conoscenza del territorio, ma questa è prima di tutto una vittoria delle nostre competenze tecniche e commerciali. Grazie alle quali abbiamo tenuto dietro di noi colossi come Bp ed Exxon Mobil”.
Soddisfazione anche da parte irachena: da Baghdad fanno sapere che se il prossimo round di accordi con le major straniere proseguirà con questi risultati, l’Iraq scalerà presto la classifica dei produttori mondiali di oro nero, piazzandosi al terzo posto dietro Russia e Arabia Saudita. Contemporaneamente il ministro del Petrolio, Hussain al Shahristani, può rivendicare la linea dura messa in campo a fine giugno. In quel caso, alla fine della prima gara di appalto per lo sfruttamento di otto giacimenti del paese, solo uno di essi era stato assegnato: quello di Rumaila, nel sud dell’Iraq, conquistato da un consorzio formato dalla britannica British Petroleum (Bp) e dalla cinese China National Petroleum (Cnpc). Le condizioni troppo onerose proposte dalle autorità irachene, e in particolare la remunerazione estremamente contenuta per ogni barile estratto, oltre a condizioni di contesto migliorate rispetto al passato ma non idilliache, hanno spinto le altre società a tirarsi indietro. Solo temporaneamente, perché da qualche giorno, assieme all’Eni, sono tornati a trattare anche gruppi americani (Conoco Phillips e Exxon Mobil tra gli altri) e russi (Lukoil). Per la società italiana, che nel primo semestre ha conseguito utili netti per 2,74 miliardi di euro (meno 59,5 per cento rispetto al 2008), è l’ultimo episodio di una strategia di accordi (di vario tipo) stretti in tutto il mondo: dalla Russia all’Australia, passando per Ghana, Congo e Angola.
Quanto alla vicenda irachena, ”la firma del contratto dovrebbe avvenire tra qui e metà novembre”, dice Descalzi che, pur senza sbilanciarsi, non prevede colpi di scena all’ultimo momento. Per una valutazione complessiva si attendono i dettagli del contratto di servizio, sui quali nessuno all’Eni si sbottona più di tanto. ”Per quello che ne sappiamo le ricadute saranno positive sia per l’Eni sia per l’Iraq, ma anche per i mercati globali”, commenta Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, società indipendente di ricerca in campo energetico e ambientale. ”Per il cane a sei zampe si tratta di quantitativi enormi di petrolio e di un reddito fondamentalmente assicurato”, spiega. Questo perché quello di Zubair non è un nuovo giacimento e si trova pur sempre in Iraq, il terzo maggiore paese in quanto a riserve. ”Per Baghdad si tratta invece di un passo importante verso la normalizzazione – continua l’economista – stabilizzazione, infatti, vuol dire innanzitutto creare le condizioni di sviluppo”. Aiuteranno in questo caso le tecnologie all’avanguardia messe in campo della società di San Donato Milanese, dalla ”perforazione sottile” sviluppata in Basilicata e più efficiente di quella classica, alla maggiore efficacia raggiunta nel campo della modellistica dei giacimenti da sfruttare. L’impatto sui mercati, e in particolare sul prezzo del petrolio, pur impercettibile nel breve termine, diviene più significativo se collocato in un ragionamento più ampio. Ieri il prezzo di un barile ha superato quota 75 dollari, record dell’anno, trainato soprattutto dall’indebolimento del dollaro e dai dati positivi sull’export cinese. ”Ma i dati di oggi sul prezzo dell’oro nero sono esageratamente alti ” continua Tabarelli ” presto, e soprattutto nel lungo termine, assisteremo a una loro riduzione perché, nonostante gli scenari apocalittici, di energia ce n’è tanta e potremo ottenerla a costi relativamente contenuti grazie all’avanzamento delle tecnologie e a maggiori investimenti in medio oriente. L’accordo stipulato dall’Eni ne è una conferma”.
Ma se ieri l’intervista del Financial Times a Scaroni si apriva con la notizia del ”semaforo verde” scattato in Iraq, dal dosaggio di spazi e virgolettati del quotidiano finanziario emergeva anche la volontà dell’ad di rispondere pubblicamente su alcune vicende interne alla società. Ancora aperto, quantomeno sulla stampa, il dossier Knight Vinke: il fondo, che due anni fa ha acquisito l’1 per cento dell’Eni, sostiene la necessità di un cambio di struttura societaria. ”Dividere Eni in due società, una dedicata al petrolio e l’altra al gas, comporterà solo benefici nelle strategie di medio lungo periodo”, ha sostenuto Eric Knight, ceo del fondo. Ieri è arrivata la risposta di Scaroni, secondo cui lo spezzatino ”distruggerebbe valore”: ’Essere così grandi nel gas – ha spiegato all’intervistatore – è molto positivo per il nostro business petrolifero”.

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2/ C’è un patrimonio ideologico che rende forte l’Eni nel mondo - di Francesco Forte

L’Eni s’è aggiudicato, in Iraq, uno dei maggiori giacimenti di petrolio del mondo, ”Giant Zubair”, che produce già 27 mila tonnellate di greggio al giorno, 6,9 milioni di tonnellate l’anno e che, mediante la perforazione di altri 200 pozzi, potrà arrivare entro sette anni a produrre 170 mila tonnellate al giorno, 62 milioni l’anno. Pari, per intenderci, al 60 per cento del fabbisogno italiano annuo. L’Eni non avrà automaticamente tutto questo greggio, un multiplo di quello che estrae mondialmente, perché guida un consorzio con la statunitense Occidental, la coreana Korea gas e con la società statale irachena Southern Oil. Una produzione enorme con un impegno di lavoro colossale. Tutto regolato da un contratto per vent’anni estendibili a venticinque.
La ragione più evidente di questo successo dell’Eni risiede nel fatto che la società partecipata dal Tesoro era già presente nel sud dell’Iraq dagli anni Settanta, con i pozzi petroliferi di Nassiriyah. E’, dunque, un partner di vecchia data degli iracheni. C’è ovviamente anche una spiegazione politica. La nostra missione militare a Nassiriyah, e in generale in Iraq, ha lasciato un ottimo ricordo. L’esercito italiano, oltre ai compiti di sicurezza, ha svolto anche attività di ordine pubblico e ha collaborato con le autorità locali. I soldati e gli ufficiali hanno fraternizzato con la popolazione, secondo un’antica tradizione che ci distingue dalle altre nazioni.
Ma la spiegazione più profonda del successo dell’Eni è che esso ha due grossi patrimoni, uno tecnologico e uno ideologico. Quest’ultimo è il più importante, non perché il primo sia in sé secondario. Ma perché altre grandi società petrolifere hanno un patrimonio tecnologico eguale a quello dell’Eni. Alcune godono inoltre di una reputazione tecnologica maggiore, dovuta al fatto che l’Italia nel mondo petrolifero è arrivata dopo gli americani e gli anglo-olandesi.
E’ il patrimonio ideologico che fa la differenza. Esso consiste nel fatto che, sotto la guida di Enrico Mattei, sin dagli inizi della sua attività all’estero, nel 1957, con il primo contratto con l’Iran allora monarchico, l’Eni adottò una formula innovativa per gli accordi petroliferi.
Al fifty-fifty tradizionale per cui metà del valore del petrolio estratto dai pozzi sarebbe toccata, in denaro, alle compagnie dei paesi produttori, Enrico Mattei aggiunse il principio per cui tali compagnie avrebbero partecipato anche alla società di esplorazione e sfruttamento dei pozzi, con una quota che sarebbe potuta arrivare al 50 per cento. Ciò comporta, in apparenza, una diminuzione della redditività dell’operazione.
Ricordo che all’epoca in cui questa formula fu lanciata, quando ero da poco consulente dell’Eni come addetto al nuovo ufficio studi, qualche avversario osò anche affermarlo, sostenendo che soltanto una compagnia di stato se lo poteva permettere, a spese del contribuente.
Ma era una sciocchezza. Infatti la società dello stato che dà la concessione (licenza) petrolifera partecipa al capitale dell’impresa di esplorazione e sfruttamento e alle relative spese. Perciò l’Eni, per la sua quota, ottiene lo stesso rendimento che se avesse il 100 per cento della società. E può lavorare di più, con un investimento minore, avendo un socio, nell’impresa. La formula dà allo stato concedente grandi vantaggi. La sua impresa, partecipando alla società con Eni, acquista competenze industriali e tecnologiche. La nazione e la regione in cui si svolgono ricerca e sfruttamento dei pozzi non si sentono ”oggetto”, ma soggetti di queste attività. E politicamente l’operazione non sa di colonialismo, ma di cooperazione.
In Mattei questa formula era nata dal sentimento che l’aveva portato a combattere durante la resistenza, diventandone un leader. Allora aveva percepito il significato dell’amore per la patria, che ha ogni popolo. Anche quelli presso cui l’Eni andava a portare ”il lavoro”.
Ecco l’altra parola, alla base della sua formula: l’Eni è un’impresa che crea lavoro nel mondo, per far sgorgare risorse naturali. Quelle di cui la nostra terra, nel sottosuolo e sopra, è avara. Mattei l’aveva imparato nella regione da cui veniva.

Francesco Forte

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3/Chi investe in Iraq non teme il terrorismo, ma le beghe politiche -

Roma. L’analisi politica irachena ora non occupa più le scrivanie dei generali al Pentagono, ma arriva su quelle delle imprese multinazionali. Il paese esce da un isolamento di trent’anni imposto prima dal regime baathista’­ che regolava il mercato secondo uno spiccio schema da repubblica socialista, chi sta vicino al capo è fortunato, il resto vive di magra petrolsovvenzione statale – e dopo da sei anni di guerra. E’ un caso unico: un mercato inesplorato di trenta milioni di persone affamate di consumi, infrastrutture e anche di lusso. A Erbil, vicino alla zona dove i due figli di Saddam Hussein sono stati uccisi nel 2003, una compagnia libanese sta costruendo un hotel a cinque stelle da 205 stanze, con annesso centro commerciale e campo da golf. A Baghdad il mercato delle auto costose è impazzito, il numero di Bmw, Mercedes e fuoristrada Hummer cresce con percentuali a due cifre. E’ un’economia appena liberata e separata da pochi metri di sabbia da riserve di greggio tra le più grandi del mondo – le stime risalgono ancora agli anni Settanta e sono imprecise – forse superiori a quelle dell’Arabia Saudita.
Con un paio di sorprese. La prima è che gli investimenti dall’estero ora non sono rallentati dalle precarie condizioni di sicurezza, ma da altri fattori. E’ vero, il terrorismo sunnita serpeggia ancora sotto il pelo dell’acqua e ogni tanto rialza la testa. Nell’ovest e nel nord del paese, la vicinanza al confine con la Siria permette ai jihadisti sopravvissuti alla campagna americana del 2007-2008 di muoversi e di fuggire con relativa impunità. Ed è anche vero che l’executive di una compagnia occidentale ha bisogno di noleggiare un scorta armata se vuole girare tranquillo in città. Ma i problemi citati dagli investitori sono quelli di ogni altro paese: ”Questioni legali con i proprietari dei terreni, contratti, arbitrati, tutti i fondamentali”, dice Patricia Haslach, che sovrintende agli sforzi americani per rimettere in piedi l’economia irachena – che dal 2003 sono costati 53 miliardi di dollari. Intuendo che gli americani sono stanchi di pagare per la ricostruzione di una potenza petrolifera ormai sovrana, l’Iraq corre ai ripari e si sta attrezzando per diventare più business friendly, inclusa una proposta di legge in Parlamento per semplificare il diritto di proprietà agli stranieri. Due giorni fa Baghdad ha anche fatto un patto con Londra: 100 addestratori britannici resteranno nel porto vitale di Umm Qasr, nell’estremo sud, l’unico sbocco al Golfo Persico, per istruire le forze di sicurezza locali. La prossima settimana a Washington arriveranno 300 politici e uomini d’affari iracheni per parlare delle potenzialità del paese, un incontro a cui parteciperanno anche 800 imprese interessate e non irachene.
La seconda sorpresa viene dalla politica. L’Iraq non sta diventando una repubblica teocratica modello iraniano, come voleva la facile profezia sul destino già scritto del paese dopo la fine dell’influenza americana. Il premier sciita Nouri al Maliki ha appena presentato in un hotel di Baghdad la nuova formazione mista con cui alle elezioni del prossimo 16 gennaio sfiderà quel blocco sciita a cui lui apparteneva: il Partito per lo stato di diritto, un insieme eterogeneo assemblato senza più nessuna logica religiosa di cui fanno parte laici, nazionalisti, cristiani e persino gli ex rivali sunniti del movimento del Risveglio, quei potenti rais dell’ovest che tre anni fa lo avrebbero ucciso a vista. L’ultraislamismo di al Qaida e la violenza simmetrica delle milizie sciite sono state per il paese una grande catarsi: gli iracheni sono stanchi delle divisioni settarie, come hanno dimostrato alle ”provinciali” – in realtà: regionali – dello scorso gennaio, in cui i partiti religiosi sono stati traditi dagli elettori. ”Maliki è cambiato – dice Haider al Musawi, un analista politico di Baghdad – e il cambiamento è dovuto al fallimento dei partiti islamici e alla sua voglia di rispondere alla crescente domanda da parte della gente di essere governata da un potere secolare”. Il premier è da poco andato su tutte le furie con il Parlamento, colpevole di avere affondato per ragioni politiche una coraggiosa proposta di investimento da settanta miliardi per costruire case, ospedali e altre infrastrutture. ”Dovremmo separare la politica dall’economia”, dice Hamid al Ibaqi, il capo della Lega del commercio nazionale.
Il caso più eclatante è su nel nord petrolifero, a Kirkuk, dove la politica irachena si è seduta a corpo morto sopra al libero sviluppo economico del paese. Questa settimana i curdi hanno deciso di fermare le esportazioni di petrolio da nord, perché non riescono più a pagare i contratti con le imprese straniere che assistono il Kurdistan nell’estrazione. A Baghdad il potere centrale, e arabo, risponde che quei contratti sono stati firmati dai curdi in modo autonomo, negli anni scorsi, mentre il resto del paese era in guerra: adesso vedetevela voi da soli, che avete fatto i furbi. E’ la politica che ancora prevale clamorosamente sull’economia. Anche nell’accordo appena stretto con Eni: il governo ha chiesto al consorzio italiano di abbandonare il partner cinese Sinopec, reo di aver fatto un contratto anche con la provincia semiautonoma curda.