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 2009  ottobre 13 Martedì calendario

IL PAESE DEI VECCHI E DELLE BADANTI


Non fa ancora freddo quassù. Non è ancora arrivata la neve che trasforma Pievepelago in una delle più frequentate località sciistiche, decuplicando ogni anno la popolazione. invece appena finita la stagione estiva, che trasforma queste alture in una delle mete predilette dell’Appennino. Qui, ora, rimangono i vecchi. Giuliano, Armando, Olga, l’Ada, Giuseppina, l’Alma. E le loro badanti. Vivono insieme giorno e notte. Se non ci fossero Elena, Anna, Maria questi anziani che ancora non si negano la passeggiata per le strade di montagna - finché possono - avrebbero dovuto abbandonare le loro case. Posti in cui sono nati, da cui si sono spostati raramente. Posti che li hanno abituati a un ritmo molto speciale. Non sopravvivrebbero lontano da qui.

Gli angeli della montagna
Per tutti gli anziani, di qualsiasi latitudine, lasciare casa propria equivale a un trauma difficile da superare. Anche per questo il «badantato» - raro esempio di mercato creato ex novo ai giorni nostri - ha rappresentato un vero boom. Arrivando pure quassù. E in modo imponente. Secondo alcune stime su circa 1.500 abitanti reali (i residenti sono 2.300) a Pievepelago ci sono più di 300 badanti, tra donne che vivono in casa di un anziano e persone che prestano servizio a ore. Un’enormità. «Le badanti sono arrivate intorno al 1998, con loro tutto è cambiato, sono un aiuto importante, ormai sembrano insostituibili», racconta Ornella Bernardi l’assistente domiciliare del Comune. Lei conosce uno per uno gli anziani a lei affidati: il carattere, le manie e le malattie, la storia della loro vita. E ora conosce bene anche le loro badanti. Quasi non si ricorda come funzionasse prima: «Credo che, semplicemente, si creassero molto più spesso le condizioni perché gli anziani venissero ricoverati. Non era una cosa positiva. Quando succede osserviamo un’incidenza netta di morti repentine».
Da quando ci sono le badanti, invece, scendere in città (circa un’ora di auto) o essere ricoverati nella casa di riposo di Pievepelago che pure c’è, non è più la norma arrivati a una certa età. Di fatto, gli anziani di queste zone vivono quasi sempre soli: i figli si sono spostati a Pavullo, Modena, Bologna. Prima dell’era delle badanti, racconta Elena Begliomini - la responsabile dei servizi sociali - «sicuramente era più sviluppato il buon vicinato. Se un anziano viveva solo c’era chi si occupava di fare la spesa, chi di comprare le medicine. Ora questa dinamica funziona di meno, anche se ci piacerebbe potenziarla. Ma è chiaro: se ci sono le badanti ci pensano loro». Con un servizio di assistenza a pagamento 24 ore su 24, la casa in qualche modo si richiude - anche se in un posto del genere non è mai del tutto vero e la «visita pomeridiana» è ancora un rito duro a morire - si ricrea un nucleo famigliare, anche se artificiale. Con tutte le caratteristiche della famiglia: affetto, nevrosi, solidarietà e prepotenze.

Tre minuti, un destino
Ada, con i suoi 86 anni, il fazzoletto in testa e il bastone che proprio stamattina ha minacciato di tirare addosso a Maria, la sua badante moldava, lo dice negli sprazzi di lucidità che la strappano alla malattia: «La città? Vacci tu in città. Io muoio in città». Ada è rimasta sola. Suo marito è morto. Il figlio Michele è l’altra persona di cui deve prendersi cura Maria, perché nato quarant’anni fa con una gravissima patologia che lo tiene inchiodato a una sedia a rotelle. Maria fa tutto, da tre anni e mezzo ormai. Si occupa della casa, di Ada e di Michele. E anche di quelle che chiama le sue «passioni»: l’orto e i fiori. E’ sempre di fretta. E’ arrivata in questo posto a mille metri di quota perché qui già lavorava sua zia. Non a caso nella zona le badanti sono quasi tutte moldave o rumene: se dappertutto il passaparola è il canale principale di arrivo, qui è obbligatorio. Tant’è che le badanti di Pievepelago non sono soltanto della stessa nazionalità, ma anche della stessa famiglia: zie, cugine, nipoti. Interi pezzi femminili di famiglie moldave o rumene trasferite qui. Per entrare in Italia Maria ha comprato un visto, poi è rimasta clandestinamente. Due anni fa Ada ha provato inutilmente a fare la domanda perché Maria potesse usufruire dei flussi di ingresso e rientrare in Italia legalmente. Anna - un’altra badante moldava che abita con Giuseppina pochi chilometri più su - è stata l’ultima ad assicurarsi un «ingresso» (viveva qui già da tre anni) regolare in Italia: la sua domanda è stata inviata alle 9,37. Quella di Maria, invece, alle 9,40 dello stesso giorno. Tre minuti che hanno deciso un destino. Funzionano così i flussi: la graduatoria viene stabilita in base all’ordine cronologico di invio delle domande. I posti non bastano mai. Ed ecco che anche tre minuti possono decidere la buona o la cattiva sorte.
A Maria, che ha 39 anni e una figlia di sei anni e mezzo che la aspetta in Moldavia, è toccata la cattiva. Non è la prima volta nella sua vita. Proprio a lei, che invece la clandestinità la vive male. Odia «non essere registrata». «Mi sembra di non essere né di qua, né di là. Non hai niente - cerca di spiegarsi - neanche un codice fiscale. Io non vado neanche in ospedale se serve. Se mi capita di avere bisogno di qualcosa in farmacia, mando qualcun altro». Eppure questo è un posto, finora, in cui il problema della clandestinità praticamente non esiste. Nessun controllo, la polizia chiude un occhio e pure l’altro quando l’altro quando incontra queste ragazze senza documenti. Tutti si guardano bene dal creare problemi a chi svolge un lavoro difficilmente sostituibile. La clandestinità rimane un problema soltanto per queste donne, costrette a vivere lontano dalla loro famiglia per anni, con la paura di essere scoperte, incatenate a un lavoro durissimo anche se spesso ben retribuito (le paghe si aggirano tra gli 800 e i 1.500 euro vitto e alloggio esclusi, a seconda della gravità della patologia e degli accordi personali).

La professoressa moldava
E intanto la loro identità si spoglia lentamente di riferimenti: «Mi capita con la mia lingua - dice Maria - non la parlo più come prima. Quando chiamo i miei genitori e faccio un discorso spesso mi dicono: "Che intendi dire? Non ho capito"». Il suo italiano non è ancora fluente, lo ha imparato stando in casa con Ada e guardando la tv. Ora il comune ha messo in piedi un corso di italiano per stranieri. Lei non sa se avrà il tempo di andare. Ma le piacerebbe perché in Moldavia era professoressa di letteratura. Se ne è andata, ha fatto il salto verso l’Italia perché non trovava altro modo abbastanza radicale per lasciare suo marito, che la picchiava. Quando è arrivata in Italia quasi non parlava, era timida e remissiva. Questi tre anni, tre anni duri e faticosi - con gli ultimi mesi sconvolti dalla malattia che sta indurendo il carattere di Ada - per lei hanno anche significato uno scatto di autonomia. Sembra che ora, quando suo marito la chiama, sappia come rispondergli. Ha un fidanzato, e vorrebbe portare in Italia sua figlia. La sua speranza è legata all’ultima sanatoria: Ada non le ha negato i 500 euro che servivano per partecipare. Per molte altre ragazze non è stato così. Difficile dire perché, la versione «ufficiale» è che i costi per partecipare erano troppo alti. Maria aspetta: «Sarò comunque meno tempo di quello che è passato finora». Se ne andrà una volta ottenuto il suo permesso di soggiorno? «Ho promesso ad Ada di rimanere finché ha bisogno».

Madri senza figli
Ottenere un permesso di soggiorno significa anche potersi sganciare da una condizione di super-lavoro. «Succede che quando diventano regolari queste ragazze comincino a lavorare a ore, anche perché quando possono portano qui la loro famiglia. In alcuni casi è accaduto che la famiglia si sia trasferita a casa dell’anziano. Ma è raro», racconta Ornella. La casa di Giuseppina dà proprio sulla strada. Lei, 84 anni, non si alza quasi più dalla poltrona, ma tutto è pulitissimo e ovunque ci sono le foto del suo nipotino di sei anni che abita a Pavullo. «Le foto le ha incorniciate Anna», dice. Anna è la badante salvata dai tre minuti. E’ rientrata nei flussi. La risposta è stata recapitata solo un mese fa. Con due anni di ritardo. Ma Anna non ci pensa, è al settimo cielo, il volo che la riporta a casa per completare la procedura è fissato tra pochi giorni. Rivedrà i suoi figli. Quando li ha lasciati avevano due e tre anni. Da allora li sente al telefono. Ma non ha più voluto vedere i loro ritratti: «Una volta mi hanno inviato un cd di foto. E’ stato bruttissimo: erano cambiati senza di me. Quando sono partita sapevo che sarebbe stata dura, ma non così». Anna ha solo 25 anni, chiacchiera e scherza amabilmente con Giuseppina e suo fratello Armando, anche lui sugli ottanta. Ma dice che qui non si annoia, che le piacciono i posti appartati, la vita semplice e di montagna. Chi invece un po’ soffre «perché qui non c’è niente», è Maria, la badante di Olga. Per fortuna Olga è un tipo particolare: prima di tutto le piace cantare, e poi è un pozzo di storia. A 93 anni, senza più la possibilità di camminare, ripercorre con agilità vita morte e miracoli di tutti gli abitanti di Pievepelago. Ricorda la guerra, quella situazione di interregno che si viveva in queste zone attraversate dalla linea gotica. Maria ha quarant’anni, in Moldavia era maestra di asilo, è venuta in Italia per aiutare figli e nipoti. Anche per lei il permesso di soggiorno è arrivato con i flussi, dopo mesi di attesa. Quando è tornata in Moldavia Olga è rimasta per quattro mesi con un’altra badante. Le cose non andarono bene. Nel frattempo, Maria ha avuto altri due nipotini. Non li ha mai conosciuti. Quest’estate vorrebbe andarli a trovare. Il viso di Olga viene attraversato da un lampo di terrore: «Ma che ci vai a fare adesso? Sono troppo piccoli, rischi che non si ricordino di te».