PAOLO DI STEFANO, Corriere della Sera 14/10/2009, 14 ottobre 2009
Quel gergo estremo della politica - Le nuove parole della politica sono proiettate sulla figura retorica dell’iperbole
Quel gergo estremo della politica - Le nuove parole della politica sono proiettate sulla figura retorica dell’iperbole. L’avverbio del nostro tempo è: «assolutamente», l’aggettivo: «assoluto». Meno argomenti, più perentorietà allocutoria. A parte l’eufemistico «escort» di stagione, pane al pane: dopo i «fannulloni», ecco avanzare con Brunetta (vezzeggiativo solo nel cognome) i «farabutti» e l’«élite di merda» pronunciati a braccio levato e in maniche di camicia. Basta con le mezze misure, insomma. Se il vecchio linguaggio del «culturame parassitario» è quello delle sottigliezze bizantine da Prima Repubblica, la nuova politica del fare impone un’espressività comprensibile e diretta («ma va’ là!!»), a volte aspra. Dunque, si pesca nella gergalità quotidiana («sputtanare» è una new entry ) e nel dialetto: il padano «ghe pensi mi», che Berlusconi ha riesumato dal suo stesso repertorio, quasi fosse una citazione letteraria. Sull’altro versante il «che ci azzecca» dipietrino è ormai un cult . Cui Tonino aggiunge proverbi pronunciati come-viene-viene: «Voi state a vedere lo stuzzicadenti nell’occhio e non guardate la trave». Oppure il reiterato: «A dargli un dito, quello ti frega un braccio». E mentre ci si affanna a tirar fuori dagli armadi lessicali i peggio improperi atti a «demonizzare» l’avversario («magnaccia!»), fa un po’ sorridere la raffinatezza sciasciana con cui Franceschini definisce il premier: un «ominicchio». Ma come, neanche «quaquaraquà»?