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 2009  ottobre 13 Martedì calendario

QUEL FASCINO INDISCRETO DELLA BORGHESIA


Immaginate tre mesti vegliardi - uno dalmata, uno torinese, uno pugliese - che dalla panchina dei giardinetti tirano bastonate agli uccellini e maledicono questi tempi volgari, ché la creanza della buona borghesia di una volta ormai pare irrimediabilmente scomparsa, signori miei. Ecco, è l’immagine più cordiale che scaturisce dal micro-dibattito sorto tra Enzo Bettiza e Massimo Gramellini e Marcello Veneziani (Stampa i primi due, Giornale il terzo), dopo che Berlusconi ha detto che il Corriere della Sera non è più «il foglio conservatore della buona borghesia» bensì un’altra cosa, probabilmente di sinistra.

Liquidiamo la sortita berlusconiana, subito, come un’uscita di grana grossa e figlia (...)

(...) di questi tempi, uno slogan, una maniera come un’altra per declinare una personale delusione circa la linea editoriale tenuta appunto da via Solferino: affari suoi che ora non interessano e che oltretutto non ci vedono granché d’accordo. Liquidiamo, pure, la citata definizione di «vecchietti» come annotazione rigorosamente non anagrafica ma - diciamo - generazionale, obbligata dal palese ritardo culturale nel quale i tre paiono annegare.

Tocca riassumere e giocoforza svilire le loro tesi, e non è mai bello. Massimo Gramellini (La Stampa) rimpiange una borghesia «perbenista e un po’ ipocrita, ma solida e laboriosa, spazzata via dall’arrivo di arrampicatori spregiudicati e volgari che il Corriere non lo leggono perché, essendo moderato, non è abbastanza truculento per i loro gusti». Parla palesemente dei lettori di Libero e del Giornale et similia, e aggiunge di rimpiangere una borghesia stile Montanelli. Poi c’è Enzo Bettiza che si lascia alle spalle un vago aroma di brillantina Linetti e ricostruisce il mito della borghesia milanese partendo dagli anni Venti, arrestandosi ovviamente ai suoi anni Settanta: e non nega, anzi sottolinea, come l’influente borghesia milanese in realtà fosse spiaccicata sulle posizioni illuminate e conformiste del Corriere di Piero Ottone e di Giulia Maria Crespi, notoriamente inclini al compromesso con i quei comunisti che erano in avanzata pressoché ovunque; ampia citazione, anche qui, per Montanelli e per gli scismatici del Giornale intesi come «il meglio della cultura di dissenso liberale italiana». Marcello Veneziani, infine, irrompe con la suadenza di un disossatore e spiega che la borghesia è morta per due fattori: un processo socio-economico già descritto agli inizi del Novecento da Ortega y Gasset (c’è più tecnica ma meno cultura, più benessere ma meno benpensare, più ricchezza ma anche più opulenza), ma sopratutto, secondo fondamentale fattore, il punto è che la borghesia l’ha uccisa il Sessantotto con la sua borghesia antiborghese che fece strame di ogni forma in omaggio a un anticorformismo conformista e massificato; anche Veneziani ovviamente precisa che «da quella borghesia snob e traditrice scappò Montanelli fondando appunto Il Giornale», corazzata tra le motovedette de Il Tempo e de Il Borghese. Conclusione interrogativa di Veneziani: «Non vi sorge il dubbio», si chiede parlando dei neoborghesi «spregiudicati e volgari» citati da Gramellini, «che una borghesia arrabbiata sia sorta proprio dalle mortificazioni subite in questi anni»?
I numeri che non tornano

Fine della sintesi mortificante. Ora: giacché tutti e tre all’apparenza paiono certificare e rimpiangere una borghesia identificabile con Montanelli e col Giornale, la prima obiezione è puramente contabile: in questo Paese, seguendo il loro ragionamento, la borghesia «buona e gentile», «solida e laboriosa», era composta da meno di centomila persone quali erano i lettori del Giornale di Montanelli. pensabile? No, è chiaro che qualcosa non quadra. E non solo perché da quelle parti si celava anche - anche - una borghesia perbenista che di destra o un po’ fascistoide talvolta lo era davvero, ma anche per via di un dettaglio che i tre vegliardi, forse, danno per acquisito: che una vera borghesia e alto-borghesia italiana per alcuni aspetti non è mai esistita - in paragone a quella europea, almeno - e che trattasi, in ogni caso, di una piccolo-borghesia volubile e conformista che corrisponde purtroppo all’irreprimibile carattere degli italiani, note banderuole sufficientemente spalmate su tutto l’arco costituzionale. Così era, e così resta. Sicché dicano: se al tempo questa rimpianta borghesia era composta tipo da centomila persone, oggi quanti sarebbero i neoborghesi «spregiudicati e volgari» citati da Gramellini? Forse le trecentomila persone che all’ingrosso leggono Libero e Il Giornale? E tutti gli altri? E le decine di milioni che votano centrodestra? Tutti non-lettori? O forse gente che legge tranquillamente anche La Stampa e il Corriere perché ha il portafoglio a destra, il cuore a sinistra e un bel quotidiano in mezzo? Tutti piccoli o grandi lord, costoro?
Il sogno del suv e del cellulare

Ma anche questa è un’analisi banale e datata, a ben pensarci. Ciò che rende surreale il dibattito non è soltanto l’inesistenza di una borghesia identificabile, ma la celebrata scomparsa di un qualsiasi ceto medio cui fare un riferimento anche minimo. Di che borghesia parliamo? E per che cosa, la medesima, sarebbe volgarmente incazzata e truculenta? La gente, nostra opinione, non è incazzata col Sessantotto: è incazzata e basta. Lo era coi politici durante Mani pulite, e lo è adesso con le caste perché è il loro turno. Se è vero che le borghesie agognate da Gramellini e Bettiza e Veneziani erano composte da quattro gatti, oggi sono ridotti al massimo a due o tre: il resto è ormai una classe media globalizzata che non ha più nome, possono essere operai e pensionati oppure impiegati, neolaureati, commercianti e artigiani, tutti spalmati su un ex piccolo-borghesia (e neo-proletariato) spaccata a metà, in parte ancor più benestante ma in maggioranza declassata, impaurita, assolutamente trasversale. La nuova borghesia accetta talvolta di far la spesa al discount e non rinuncia a vacanze pagabili anche a rate, scivola verso il low cost ed è ormai incapace o impossibilitata a essere la formichina di un tempo. Dal robivecchi sono finite non solo le ideologie, ma anche i semplici ideali, gli obiettivi di medio o lungo respiro: si vuole tutto e subito, e non l’eguaglianza sociale o il sogno americano, ma una Punto, un suv, un cellulare, un bilocale, un weekend, un tostapane, una rata più bassa: va da sé che la creanza di una volta, in tutto questo, pare peraltro irrimediabilmente scomparsa, signori miei: scomparsa dal famoso Paese reale e spesso, il che è più grave, dagli ovattati corridoi del Circolo della stampa. Insopportabile.