Ingo Schulze, Corriere della sera 9/10/2009, 9 ottobre 2009
In piazza a Lipsia con l’euforia e la paura Quella notte il Muro tedesco iniziò a cadere- Lo scrittore Ingo Schulze ricorda il 9 ottobre e le proteste che portarono alla fine della Ddr Spesso vengo corretto, anche se con tatto: «Intende forse il 9 novembre? »
In piazza a Lipsia con l’euforia e la paura Quella notte il Muro tedesco iniziò a cadere- Lo scrittore Ingo Schulze ricorda il 9 ottobre e le proteste che portarono alla fine della Ddr Spesso vengo corretto, anche se con tatto: «Intende forse il 9 novembre? ». «No. Il giorno decisivo è stato il 9 ottobre». «Ma come? Il muro è caduto proprio il 9 novembre!». «Sì, ma perché c’era stato il 9 ottobre». La mattina del 9 novembre quasi nessuno avrebbe previsto la caduta del muro. Invece, il 9 ottobre si sapeva, e non solo a Lipsia, che quella sera avrebbe portato con sé una decisione, dopo la quale – in un modo o nell’altro – niente sarebbe più stato come prima. Il 9 ottobre era un lunedì, il primo lunedì dopo il 7 ottobre, il 40˚ anniversario della Rdt. Di settimana in settimana la «Manifestazione del lunedì», collegata alla «Preghiera per la pace» nella chiesa di San Nicola a Lipsia, diventava sempre più grande. Una settimana prima si erano riuniti trentamila dimostranti. Avevo paura – ed ero al tempo stesso euforico. Motivi per avere paura ce n’erano abbastanza. La settimana precedente, a Dresda, c’era stata una vera e propria battaglia tra soldati in uniforme e dimostranti attorno alla stazione centrale, dalla quale dovevano transitare i treni con i rifugiati dell’ambasciata di Praga. Il fine settimana prima anche a Berlino, Lipsia e in altre città soldati armati di bastoni si erano scagliati su dimostranti e passanti. Fino a quel momento non ci era ancora dato di sapere con quale brutalità, con quale vena sadica, avessero agito in molti casi le cosiddette forze dell’ordine. (...) Eppure, non restava alcuna scelta. Perché quando, se non adesso, si doveva scendere in strada? Avrei perso qualsiasi credibilità, di fronte a me stesse e ai miei amici, se me la fossi data a gambe levate. Anche per questo eravamo rimasti – per cambiare qualcosa. Prima che la mia compagna ed io, lavoravamo entrambi al Teatro di Altenburg, salissimo in macchina nel primo pomeriggio per andare a Lipsia, riempimmo il frigorifero per sua figlia tredicenne. Nel supermercato l’offerta era ricca come non mai in questo giorno straordinario. Che strano! Come se fosse stato fatto apposta per noi! Lasciammo alla ragazza una busta con del denaro, poi delle monetine per il telefono e le scrivemmo il numero di un’amica da chiamare nel caso non fossimo ancora tornati la mattina seguente. Eppure più grande della paura era la speranza, anzi l’euforia. In Polonia, il governo di Solidarnosc aveva già ampiamente delineato il destino del Paese, gli ungheresi avevano aperto le frontiere con l’Austria il 10 settembre, il giorno dopo nella Rdt era stato fondato il «Nuovo Forum» – il primo gruppo di opposizione. Il grido «Vogliamo andarcene!» si era trasformato, dalla fine di settembre, in «Vogliamo restare qui!». Dall’ultimo lunedì era diventato: «Noi siamo il popolo!». Partimmo presto per Lipsia, perché temevano che potessero essere sbarrate le vie di accesso alla città. Parcheggiamo l’auto di fronte al museo Georgi Dimitrov. Dirimpetto, in una strada laterale, vedemmo alcuni veicoli militari e uomini in uniforme dei Gruppi combattenti. Da una grossa tinozza versavano a tutti del tè. Gli uomini in uniforme non erano più ragazzini, a molti spuntava la pancia sopra al cinturone. Passammo loro accanto quasi sfiorandoli, li guardammo – loro distolsero lo sguardo. In centro, a una prima occhiata, le cose sembravano esattamente come sempre – ma all’improvviso ci trovammo di fronte una lunga fila di veicoli militari. Si sentivano abbaiare i cani. (...) Davanti alla chiesa di San Nicola – erano le 16, un’ora prima dell’inizio della «Preghiera per la pace» – c’era la calca. Non sapevamo che nella chiesa erano stati inviati centinaia di compagni del Sed (Partito Socialista Unificato di Germania) per occupare tutti i posti. Dalla chiesa riformata tornammo in Piazza Carlo Marx. I vicoli e le stradine del centro storico erano pieni di gente. Il lunedì precedente ero rimasto quasi paralizzato, quando avevo sentito per la prima volta «Via la Stasi!». Che fosse possibile qualcosa del genere, senza che orde di difensori della sicurezza dello stato si precipitassero sui presenti, mi sembrava quasi un miracolo. Una settimana più tardi, queste grida risuonavano alte e quasi familiari. Se le registrazioni delle due telecamere, issate sull’edificio delle Poste in Piazza Carlo Marx, non sono state cancellate, si dovrebbe poter vedere come si era sviluppata la dimostrazione. Per me era sorta dal nulla, d’improvviso. Non era solo un corteo – una manifestazione – che si era messo in cammino dalla chiesa di San Nicola («Circolare! Circolare!»), diretto alla Piazza dell’Opera. Perché improvvisamente da ogni dove confluivano sempre più persone. Tutti quelli che un attimo prima si trovavano in piazza quasi per caso, quelli di cui si sarebbe pensato che stessero andando a fare la spesa o semplicemente che tornassero a casa dal lavoro, si rivelarono veri e propri dimostranti. Scorrevamo sotto gli occhi delle due telecamere, l’ampia strada davanti all’edificio delle Poste e ci stupivamo che non accadesse niente. Poco prima di raggiungere la strada, rividi una compagna – «Tu qui!?» Mentre parlavano di conoscenti comuni, raggiungemmo il Georgiring e ci fermammo al rosso del semaforo pedonale. Le auto passavano. (...) Ogni volta che cito questo momento nelle mie conversazioni, vengo accolto da un risolino, sono quasi deriso. Come se volessi, citando questi dettagli, sminuire la dimostrazione, irriderla. Ma perché ci si dovrebbe precipitare davanti a un’auto in corsa? Perché non scacciare la paura dall’anima con delle chiacchiere? Il quotidiano e lo straordinario esistono e non sono in due mondi separati. In pochi minuti, i veicoli che si fermavano al rosso dei semafori restavano intrappolati nel corteo. La strada era nostra. La tensione mi aiutava a unirmi al coro. Anche se mi è sempre stato difficile gridare tra la folla. Perché le «urla collettive» appartenevano a quel altro mondo, quello da disprezzare. Eppure, ora partecipare scacciava la paura e ci legava gli uni agli altri: «Elezioni libere», «Noi restiamo qui», «Nessuna violenza» e, sempre più spesso, «Noi siamo il popolo». Dove erano gli uomini in uniforme? Mi sembrava che le «forze dell’ordine» si fossero dissolte nell’aria. Dalle finestre delle abitazioni circostanti e dai ristoranti si affacciavano sempre più persone. «Unitevi a noi!», «Via la Stasi!», «La Stasi nell’ economia politica» (anche se lo era già da lungo), «Gorbi, Gorbi!». Solo al coro pro Gorbi non mi unii. Senza Gorbaciov, lo sapevano tutti, non si sarebbe dato il via a tutto questo movimento. Ma il suo comportamento nei confronti degli Stati del Baltico mi irritava. Nel Baltico non sembrava affatto che la violenza delle armi fosse stata messa al bando. Quando svoltammo, tutto li Georgiring era assiepato di persone. Esultammo. Chi avrebbe potuto fermare questa massa? Il fatto che fossimo così tanti – settantamila – e che non ci fosse nemmeno un unico singolo idiota che tirasse una pietra, quello era il nostro trionfo. Contro questa fiumana di persone sarebbero state efficaci solo le armi. Eppure che potessimo davvero essere colpiti da armi da fuoco, mi sembrava impensabile. Come oggi tutti sappiamo, restò a lungo dubbio se fosse stato dato o meno l’ordine di «reprimere la controrivoluzione». La centrale operativa di Lipsia riteneva che un intervento armato fosse inutile. Attendeva la ratifica di questa decisione da Berlino Est – ma da Egon Krenz non venne alcuna risposta. Poco prima delle 18.30 il primo segretario di circoscrizione del Sed, Helmut Hackenberg, diede l’ordine: «Lasciar andare i dimostranti e ritirarsi nell’ombra », a meno che non si verifichino «attacchi alle forze dell’ordine, a oggetti e impianti». Gli uni si ritirarono nell’ombra, gli altri uscirono dall’ombra. (...) Eravamo quasi sul punto di cantare: «Su lottiamo, l’Ideale, nostro alfine sarà, l’Internazionale futura umanità!». Il ritornello dell’Internazionale - quasi nessuno era in grado di andare oltre la prima strofa e il ritornello - mi sembrava sorprendentemente adeguato. Eravamo noi l’Internazionale, ci sentivamo uniti ai polacchi, ai cecoslovacchi, agli ungheresi, ai rumeni, ai russi, ai cinesi, ai cileni, ai sudafricani... Chi osserva le fotografie di queste prime dimostrazioni a Lipsia, noterà lo spazio tra le persone. Qui nessuno marciava in fila. I pochi striscioni erano di piccole dimensioni e venivano passati sopra le teste con l’aiuto di corti bastoni, così che migliaia di impronte digitali avrebbero potuto essere rilevate con estrema chiarezza. « Visafrei bis Shangai - Senza visto fino a Shangai». Si camminava per le strade della città con un paio di amici fidati in una ancora tiepida sera d’autunno e si era felici che ci fossero anche tante altre persone, senza le quali - in senso letterale - non ci si sarebbe avventurati per le strade. Per la prima volta mi apparve chiaramente cosa intendessero affermare due secoli fa con la parola Fraternità, fratellanza. (...) Davanti al cosiddetto «Angolo rotondo », il palazzo dei servizi segreti, vedemmo uomini in uniforme, con tanto di scudi ed elmetti. Era la vera e propria sorpresa delle ultime due settimane, che anche i «nostri» avessero l’aspetto dei poliziotti dell’ovest. Una cinquantina circa di soldati così equipaggiati si erano disposti in una falange di fronte all’entrata. Come si sentivano quei giovani, ragazzi comandati davanti alla porta, dopo che il gruppo compatto del «Noi siamo il popolo», era sfilato innanzi a loro? Avevano anche loro perduto la paura? Vennero accese candele sui gradini dell’ingresso. L’«Angolo rotondo» era in parte anche un carcere, nel quale ancora si trovavano rinchiusi dietro le sbarre coloro i quali erano stati arrestati negli ultimi giorni e nelle ultime settimane. La città stessa imponeva il percorso lungo la Ringstrae. Quindi, sempre dritto fino alla Sala da concerti del Gewandhaus. Percorremmo il Ring e il cerchio si chiuse. Ci trovammo di nuovo in Piazza Carlo Marx. Questa ora ci aveva cambiato. Eravamo più liberi e più felici e più decisi che mai. Ma non eravamo i soli a essere cambiati. La città, il Paese intero erano diventati un qualcosa di altro in quest’ultima ora. La nostra gioia, il nostro sollievo, il nostro giubilo risuonavano senza dubbio ancor più delle trombe di Gerico. Tutto sarebbe stato diverso, tutti i muri sarebbero caduti – «visafrei bis Shangai » – e il sogno della Primavera di Praga del 1968 sarebbe diventato realtà: un socialismo dal volto umano. Traduzione di A. Finazzi (Oxford Group)