Franco Binello, La stampa 9/10/2009, 9 ottobre 2009
PER UN PUGNO DI LEGGENDE
Neppure i «langhetti doc», quelli sparsi tra le lande di Piemonte e Liguria, sanno spiegare perché. «Per noi il balòn è un rito e alla partita non si manca: ci andavano i nostri nonni e i nostri padri e ci torniamo noi».
Domani, a Ricca d’Alba (si comincia alle 15) c’è la prima finale scudetto: Roberto Corino, l’idolo di casa, il «dandy» degli sferisteri, professionista di questo sport, quattro volte campione d’Italia, contro Paolo Danna (Pianfei-Villanova Mondovì), due titoli in carriera, basso e tosto, che di mestiere fa l’impresario edile, gioca nei ritagli di tempo e naturalmente vuole fare lo sgambetto al più pronosticato rivale.
Una sfida che intriga, perché evoca con sfumature un poco caserecce il mito di «Davide contro Golia». Qualcuno, i pochi rimasti fedeli ad una consuetudine ormai quasi estinta, proveranno a fare qualche puntata. Anche se le scommesse potrebbero tornare presto, con tutti i crismi della legalità, come annuncia il deputato monregalese del Pdl Enrico Costa, presidente della Federazione pallapugno (5 mila tesserati). «Ho già contattato il ministero dell’Economia: stiamo lavorando al progetto» assicura Costa reduce da un tour nei Paesi Baschi, dove si pratica «la pelota», plurisecolare parente iberico del balòn.
Inutile dirlo: domani a Ricca è atteso il pienone. Il «pallone» come lo chiamano anche da queste parti resta un richiamo più forte dell’«altro» più famoso pallone, quello che rotola sui campi da calcio. E’ disciplina di «nicchia» (ad alta concentrazione cuneese, con propaggini nell’Imperiese, Savonese, Astigiano e Alessandrino). Ma anche tradizione, storia, agiografia di sfide epiche che si tramandano da generazioni. Sport vero, con allenamenti certosini, preparatori atletici, diete bilanciate. Nulla a che vedere con lo stereotipo abusato di giocatori protagonisti di mangiate e bevute pantagrueliche. Semmai è rimasta quell’abitudine bella, che il rugby ha saputo sfruttare meglio nell’immaginario collettivo, del «terzo tempo», con brindisi e abbracci a fine partita.
Un balòn che si porta sempre dietro, in dote quasi genetica, una sorta di «ortodossia contadina»: lavoro, fatiche, divertimento dei «dì di festa» che consiste nel dare «quattro pugni» a una sfera di gomma dura pesante due etti, lanciata dai più bravi a 80-90 metri, con la sola forza di una mano protetta da una fasciatura che ha regole antiche, un misto tra bende e tranci di cuoio: quasi un sudario agonistico.
Si sono consumati così drammi umani e trionfi sportivi. Con dualismi ormai leggendari su queste colline contrappuntate di vigneti: dai mitici duelli tra Manzo e Balestra a quelli della più recente accoppiata di assi Bertola-Berruti. E migliaia di «suiveurs» ai bordi di quegli stadi della pallapugno che si chiamano sferisteri, spesso arroccati intorno a paesotti da fiaba. «La nostra rivalità ha fatto la fortuna dei botteghini» rievoca con lo struggimento della nostalgia, Felice Bertola, venuto al mondo 65 anni fa nel pieno di un rastrellamento nazi-fascista a Gottasecca, dove il Piemonte cede il passo alla Liguria e poi divenuto il più titolato campionissimo del balòn, con 12 scudetti. Bertola guarda oltre la sua avventura giovanile: «Venite a vedere, ci sono tanti ragazzi nuovi in tribuna e in campo e qualcuno degli emergenti (Vacchetto, Pittavino, Marcarino) sarà presto una stella».
Il suo «alter ego», Massimo Berruti (6 titoli), ora pittore canellese, prova a fornire una chiave di interpretazione: «Il balòn fa parte della nostra cultura, è un modo di vivere, di essere. E non è fuori del tempo per le sue regole: nessuno si sognerebbe di mettere in discussione per esempio il baseball, che ha le stesse pause del nostro gioco. Lo diceva anche Giovanni Arpino: il balòn volerà sempre. Io credo sarà più forte delle mode e dei nuovi modelli televisivi».