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 2009  ottobre 09 Venerdì calendario

ALL’OMBRA DEL PIL C’ UN’ITALIA CHE PU SORRIDERE

Molti continuano a misurare la gravità della crisi mondiale e il suo impatto sulle diverse economie nazionali unicamente in termini di caduta del Pil. Ma il Pil non soltanto fatica sempre più a riflettere il livello di benessere dei sistemi economici, come ha ribadito il rapporto della commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, ma si rivela anche sempre più inadatto a cogliere le sfaccettature di una recessione mondiale in cui i paesi in realtà si dividono, a nostro avviso piuttosto chiaramente, in malati gravi e altri meno gravi. Peccato però che secondo il termometro convenzionale del Pil tra i primi vi siano il Giappone (-5,4% l’ultima stima dell’Fmi per il 2009), la Germania (-5,3%) e l’Italia (-5,1%) e tra i secondi gli Stati Uniti (-2,7%), la Spagna (-3,8%) e la Gran Bretagna (-4,4%). Mentre è vero esattamente il contrario.
 del tutto evidente, infatti, che la più forte caduta del Pil di Giappone, Germania e Italia dipende principalmente dalla temporanea paralisi del commercio mondiale. Indubbiamente la frenata delle esportazioni imporrà a questi paesi aggiustamenti delle capacità produttive e dolorose ristrutturazioni ma, quando la ripresa si manifesterà, Giappone e Germania ricominceranno a produrre auto ed elettronica come sanno fare meglio di chiunque altro al mondo e a esportare i loro prodotti con successo. E lo stesso farà l’Italia con la sua meccanica e i suoi beni per la persona e la casa. più difficile invece che il settore delle costruzioni possa ricominciare a trascinare il Pil della Spagna come è avvenuto artificiosamente negli ultimi dieci anni o che la finanza torni a essere quel potente motore truccato delle economie americana e britannica che è stato dal 2002 in poi. Perché il tempo delle bolle immobiliari e finanziarie è finito. Così come quello dei consumi finanziati a debito che hanno caratterizzato la recente crescita non sostenibile di questo secondo gruppo di paesi.
Dunque non il Pil ma altri dovrebbero essere in questo momento gli indicatori più corretti per comparare il reale grado di gravità della crisi che ha colpito le diverse economie: ad esempio, l’aumento della disoccupazione o la caduta dei consumi e della ricchezza netta delle famiglie. Già poco prima dello scoppio della recessione l’Economist invitava a guardare alla crescita del tasso di disoccupazione considerandolo come l’indicatore più sensibile dell’imminente peggioramento del quadro economico («Redefining recession», 13 settembre 2008). E il settimanale britannico ricordava con ironia il vecchio detto secondo cui se il tuo vicino perde il lavoro è in atto un rallentamento congiunturale, se sei tu a perderlo è cominciata una recessione, mentre se lo perde un economista siamo sprofondati in una depressione. Mettendo in guardia proprio gli economisti, perché se avessero sottovalutato da quel momento in poi il crescente deteriorarsi dell’occupazione avrebbero allora effettivamente meritato di essere "licenziati". E
bbene, se aggiornassimo quell’analisi dell’Economist per valutare oggi i paesi in più forte recessione e quelli meno colpiti dovremmo constatare che tra giugno 2008 e giugno 2009 il tasso di disoccupazione della Germania è cresciuto solo del 5,5% e quello dell’Italia del 10,4%, mentre nelle economie ben più malate d’America, di Spagna e di Inghilterra l’incremento del tasso di disoccupazione è stato, rispettivamente, del 71%, 66% e 45%. Una diagnosi diametralmente opposta a quella fornita dal Pil.
Lo stesso vale per i consumi delle famiglie, che stanno chiaramente evidenziando una forbice. Infatti, nel secondo trimestre 2009 essi sono cresciuti dello 0,3% in Italia rispetto al trimestre precedente e dello 0,7% in Germania, mentre sono diminuiti ancora dello 0,2% negli Stati Uniti, dello 0,6% in Gran Bretagna e dell’1,6% in Spagna. Dal secondo trimestre 2008 al secondo trimestre 2009 i consumi delle famiglie sono calati cumulativamente dell’1,8% in Italia, mentre sono addirittura diminuiti del doppio in Gran Bretagna (-3,6%) e di oltre il triplo in Spagna (-5,9%). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a uno scenario che è l’esatto contrario di ciò che appare dalla semplice comparazione dei Pil nazionali.
Un altro indicatore complementare al Pil che sta guadagnando crescente attenzione sia nell’ambito delle analisi strutturali sia sotto il profilo delle indagini congiunturali è quello della ricchezza netta delle famiglie.
La ragione è molto semplice: così come in un’impresa non si deve mai guardare solo al conto economico ma anche allo stato patrimoniale (nel senso che il primo può anche andar bene per un anno o due ma se poi l’azienda ha accumulato troppi debiti alla fine rischia di fallire), così anche nel giudicare l’andamento di un sistema economico non è possibile prestare attenzione soltanto alla produzione annua del reddito e alla sua crescita, perdendo di vista magari altri aspetti cruciali come lo stato del debito pubblico o il deterioramento dei conti finanziari delle famiglie (fattore che può essere persino più insidioso del debito pubblico, come ha dimostrato questa crisi).
Nell’ambito delle analisi strutturali sulla ricchezza spicca lo studio del 2007 del World institute for development economics research dell’Università delle Nazioni Unite di Helsinki (Unu-Wider), svolto dal gruppo di lavoro di Davies, Sandstrom, Shorrocks e Wolff. Questo studio ha preso in esame 150 paesi per i quali è stata stimata la ricchezza netta pro capite delle famiglie (composta dalle attività reali, tra cui la casa e i terreni, più le attività finanziarie al netto delle passività finanziarie). I dati si riferiscono al 2000 e sono espressi in dollari internazionali a parità di potere di acquisto.
Da tale analisi emerge che, mentre l’Italia figura soltanto al 22? posto nella graduatoria del Pil pro capite, balza all’ottavo posto per ciò che riguarda la ricchezza netta pro capite, sopravanzando nettamente economie come la Francia, la Germania, l’Australia e i paesi scandinavi. Per ricchezza mediana per adulto l’Italia è addirittura seconda nel G-20, dietro soltanto al Giappone.
Anche altri studi basati su dati più recenti ma relativi a un minor numero di paesi confermano il forte posizionamento comparato dell’Italia per ciò che riguarda la ricchezza delle famiglie.
Ad esempio, secondo l’analisi di Jannti, Serminska e Smeeding su dati del Luxembourg wealth study (un centro di ricerche promosso da vari uffici statistici nazionali e banche centrali, tra cui la Banca d’Italia), il nostro paese si collocherebbe dietro a Svezia, Germania, Canada, Gran Bretagna e Stati Uniti per reddito pro capite sia medio sia mediano a parità di potere d’acquisto (in dollari del 2002), mentre si porrebbe solo alle spalle degli Stati Uniti per ricchezza media e davanti agli stessi Stati Uniti per ricchezza mediana, evidenziando in definitiva anche una migliore distribuzione tra la popolazione della ricchezza, che in genere è molto concentrata in tutti i paesi analizzati (l’Italia ha in assoluto l’indice di Gini più basso).
La Banca d’Italia stima che nel 2007 la ricchezza netta delle famiglie italiane (che fa perno su attività investite per i tre quarti in beni reali e attività finanziarie sicure come depositi e titoli di stato) sia ammontata a 8,5 trilioni di euro, pari all’8,1% del reddito disponibile delle famiglie e a circa 143mila euro pro capite a prezzi correnti: un valore che ci pone ai vertici mondiali. A prezzi costanti la ricchezza netta delle famiglie italiane è aumentata tra il 1995 e il 2007 di ben 2.731 miliardi di euro (+47%): una performance di gran lunga superiore a quella del Pil (+19%). L’aspetto più interessante è che la crescita della ricchezza delle famiglie italiane è stata molto più solida rispetto a quella di altri paesi i cui valori sono stati particolarmente sospinti, specie nel 2006-2007, dalla bolla immobiliare e finanziaria, come è avvenuto, ad esempio, in Gran Bretagna, paese che ci aveva temporaneamente sopravanzato per ricchezza pro capite. Le famiglie italiane, inoltre, si sono tendenzialmente indebitate di meno.
Sicché nel 2008, dopo lo scoppio della crisi mondiale e la caduta del prezzo delle case e dei titoli finanziari, la ricchezza netta delle famiglie inglesi è crollata di ben 892 miliardi di sterline a valori correnti (-11,9% rispetto al 2007) e il rapporto tra ricchezza netta e reddito disponibile è precipitato da 8,6 a 7,2. Non conosciamo ancora i dati definitivi del 2008 per l’Italia (la nostra banca centrale li diffonderà verso fine anno). Ma si può stimare per il 2008 una diminuzione del rapporto ricchezza netta/reddito disponibile non superiore a 0,6-0,7 punti sino a quota 7,4: livello che ci permetterà di superare nuovamente, sia pure in discesa, l’Inghilterra (senza contare l’effetto di svalutazione della sterlina che renderà le famiglie inglesi ancora più "povere" internazionalmente).
Tutte queste considerazioni ci portano a concludere che, dopo la pulizia dei valori fittizi operata dalla crisi, stiamo tornando a essere, tra i grandi paesi occidentali, quello con le famiglie più ricche in rapporto al reddito, di gran lunga davanti anche agli Stati Uniti, alla Francia e alla Germania. Un’altra cosa non trascurabile che il Pil non ci sta dicendo.