Livia Manera, Corriere della sera 8/10/2009, 8 ottobre 2009
L’UOMO CHE GUARDA IL SUO FALLIMENTO
Philip Roth: un attore celebre non riesce più a recitare. Che accade quando si perde la magia?
Prima che Pegeen si presentasse un pomeriggio d’inverno a casa sua, Simon Axler era un uomo finito, racconta Philip Roth nel suo nuovo romanzo The Humbling che abbiamo letto in anteprima (uscirà negli Stati Uniti da Houghton Mifflin a fine ottobre). Finita la sua carriera di attore teatrale. Finiti i suoi rapporti con le donne. Finite le sue relazioni sociali. E nessuna speranza di felicità a venire. Inoltre, da parecchi mesi, quest’uomo di sessantacinque anni ancora celebre e ammirato non poteva né camminare né stare seduto a lungo, a causa di un dolore alla spina dorsale che lo aveva infastidito per tutta la vita, ma che con l’età era diventato quasi intollerabile. Perciò Simon Axler era pronto a gettare la spugna e dichiararsi vinto. La sua prospettiva più realistica era il suicidio.
perlomeno da Everyman , cioè dal 2006, che Philip Roth gioca, letterariamente parlando, con la morte. E certamente non è un caso che da allora abbia affrontato questa prospettiva con un’iniezione di energia formidabile: un libro all’anno per quattro anni (in verità cinque, ne ha già pronto un altro che si chiamerà The Nemesis e uscirà nel 2010), quanto basta per tenere i suoi lettori costantemente sulla corda. Ed è per questo che, mentre in Italia Einaudi pubblica Indignazione , il mondo anglosassone si prepara all’arrivo di The Humbling: un altro titolo difficile da tradurre, che significa mortificazione, umiliazione, ma anche perdita dei propri poteri espressivi. Un altro romanzo breve (144 pagine), confezionato con eleganza austera dal maestro della grafica Milton Glaser. E un’altra storia forte. «Quando si rinuncia all’amplificazione del grande romanzo e si cerca la condensazione, bisogna sapere sferrare un bel pugno. Conosce l’espressione colloquiale to pack a wallop »?, chiede Roth un pomeriggio d’inizio autunno, seduto nel salotto del suo appartamento nell’Upper West Side di New York.
No, ma il pugno arriva a bersaglio lo stesso. Perché nella sua atroce bellezza, questo romanzo che racconta una disillusione seguita da un’illusione seguita da una disillusione, parla il linguaggio di un incubo universale. «Era un’idea che avevo in mente da molto tempo: quella di un bravo attore, un attore famoso, che all’improvviso non riesce più a recitare.
Volevo che la prima frase del libro fosse: ’Aveva perso la sua magia’. Il resto è venuto di conseguenza».
Un attore: cioè un artista che in età avanzata perde i propri poteri espressivi. stato, da parte di Roth, un modo di esorcizzare una paura personale? «No. Io non ho questa paura. Né penso che gli scrittori della mia generazione stiano peggiorando con l’età. Guardi Doctorow e DeLillo: lavorano ancora. E il giorno che John Updike è morto aveva due libri nuovi in libreria! Uno di racconti e uno di poesie sul morire che sono fantastiche, scritte quando era già in ospedale. Questo non è fallire. Piuttosto, ho cercato un pretesto per indagare sul tema: quando un uomo perde la sua magia, che cosa accade?».
Accade, nel caso di Simon Axler, che si allontana dal mondo; che la moglie, che era stata una ballerina di Balanchine «capace di risvegliare in lui la lussuria attraverso le emozioni più tenere», lo abbandona per andare a occuparsi del figlio drogato in California. Accade che Simon Axler comincia a pensare insistentemente al suicidio; che di conseguenza decide di ricoverarsi in una clinica psichiatrica; che proprio lì conosce una donna fragilissima che troverà il coraggio di uccidere l’uomo che ha distrutto la sua vita ma non di uccidersi perché è già morta dentro.
Accade anche, però, un gioioso imprevisto: e cioè che un giorno, nella casa di campagna dove Simon si è ritirato uscendo dalla clinica, arriva senza preavviso una giovane donna che si chiama Pegeen. la figlia di vecchi amici, Simon l’ha vista in fasce. E anche se ha vissuto gli ultimi vent’anni da lesbica, Pegeen è determinata ad avere una storia d’amore con Simon. «La sua era una presenza vibrante, solida, sana, piena di energia, e nel giro di poco (Simon) non aveva più la sensazione di essere solo sulla terra senza il suo talento». Così Simon Axler rinasce. S’innamora di Pegeen, la plasma, la vizia, la perde, e poi muore.
Ci sono scene di sesso molto forti in questo libro. Non tanto perché Roth si diverta a scrivere che «quando un uomo va a letto con due donne, non è raro che una delle due, sentendosi trascurata a ragione o a torto, si ritiri a piangere in un angolo della stanza» (tanto per riattizzare l’odio delle femministe). Ma perché in quella situazione – quando cioè Simon e Pegeen seducono una ragazza ubriaca in un bar e se la portano a letto – l’uomo è relegato alla parte di spettatore e la perversione e la violenza sono femminili. «Davvero ha trovato forti quelle scene?», chiede lo scrittore incuriosito. «Per me non c’è differenza tra scrivere di sesso o d’altro. Ciò che chiedo alla mia scrittura è di essere vivida al massimo, persuasiva al massimo e agile al massimo».
E così è la scrittura di The Humbling: persuasiva, agile, oltre che compatta e sincera in modo toccante. Come quando Simon riflette: «Quando reciti la parte di qualcuno che va in pezzi, quella parte ha un ordine e un’organizzazione; quando osservi te stesso andare in pezzi, quando la parte che reciti è quella del tuo crollo, c’è qualcos’altro che emerge, qualcosa di intriso di terrore e di paura».
Che cosa sa Philip Roth delle ossessioni suicide di un uomo terrorizzato dal fallimento? O dei pazienti delle cliniche psichiatriche che si ritrovano per rivangare «con ardore» il modo in cui avevano pianificato di morire, disperandosi per non esserci riusciti? «So quello che ho visto quando sono andato a trovare amici ricoverati. So che chi ci ha provato è ossessionato dal suicidio e ne parla spesso. Non perché parlarne aiuti a uscirne, ma perché è un modo per non uscirne».
« un atto che richiede grande coraggio », continua. «Il movente, certo, è che la sofferenza che vivi è tale che sei pronto a tutto per metterle fine. Ma il passo successivo è organizzare la propria morte. E questo richiede energia, passione, industriosità, coraggio e partecipazione. A meno che non ti butti dalla tromba delle scale, come ha fatto Primo Levi. Anche quello, però, ha richiesto coraggio». Lei ci ha mai pensato? gli chiediamo. «E lei?», rigira la domanda, «che metodo sceglierebbe?».
«Sì, certo che ci ho pensato», risponde alla fine. «Ma non sono mai riuscito a capire come farlo. I sonniferi non li ho. I polsi non me li taglierei. E non mi impiccherei perché è un gesto grottesco, e le possibilità di errore sono notevoli. So già che resterei lì appeso in agonia...», ride. «Una volta ho pensato di nuotare in un lago fino al largo e di lasciarmi andare alla stanchezza. Tra tutte, mi sembra ancora la migliore delle soluzioni».