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 2009  ottobre 08 Giovedì calendario

L’America al capezzale del dollaro Ma Krugman: manterrà il suo ruolo- Repubblicani all’attacco di Obama

L’America al capezzale del dollaro Ma Krugman: manterrà il suo ruolo- Repubblicani all’attacco di Obama. Sarah Palin: c’è paura in giro NEW YORK – Il dollaro recupera do­po lo scivolone di martedì, innescato dal­l’aumento dei tassi d’interesse in Austra­lia e dalle nuove voci di manovre dei «grandi creditori» degli Usa per ridimen­sionare il ruolo della valuta americana, e l’economista Paul Krugman ne approfitta per manifestare la sua certezza: il dollaro manterrà ancora a lungo il suo ruolo di moneta di riserva mondiale. Parlando a una manifestazione italia­na, la conferenza sul futuro dell’industria meccanica organizzata a New York dal­­l’Ice, il premio Nobel ha giudicato inconsi­stenti i progetti circolati in questi giorni, come quello di quotare il petrolio non più in dollari ma utilizzando un paniere di va­lute: «Con questa crisi l’economia ameri­cana e la sua moneta hanno certamente perso di credibilità, sul piano economico e anche morale. Questo può essere un mo­tivo di debolezza, ma non può portare a mutamenti così drastici: una moneta di ri­serva deve essere una cosa viva, tangibi­le, affidabile». Insomma non un paniere. E nemmeno le altre valute, lo yuan o il ru­blo, hanno queste caratteristiche. «Le avrebbe solo l’euro», nota ancora Krug­man, «che, però, in futuro potrebbe avere più problemi di un dollaro che, bene o male, rappresenta un’area economica­mente e politicamente omogenea. Sulla valuta della Ue si scaricano, invece, tensio­ne crescenti per gli squilibri delle econo­mie europee e i diversi livelli di indebita­mento pubblico, con tutto quello che ciò comporta sui mercati obbligazionari e sui differenziali dei tassi, ad esempio tra Ger­mania e Paesi deboli come la Grecia. Sarei molto sorpreso – dico sorpreso, non scioccato – se, da qui a dieci anni, il dol­laro non fosse più la valuta leader». Indiscrezioni e ricostruzioni – come quella di una «congiura» antidollaro di Ci­na, Giappone, Russia, Brasile, Arabia Sau­dita e Francia, pubblicata due giorni fa dall’«Independent» – vanno quindi ar­chiviate? Come tali forse sì, ma anche sce­nari di questo tipo offrono spunti alle po­lemiche dei repubblicani verso l’ammini­strazione Obama, considerata responsabi­le di un indebolimento del ruolo del­l’America nel mondo che si rifletterebbe anche sul dollaro. A maggior ragione, vi­sta la dipendenza degli Stati Uniti dal­l’energia importata dall’estero. Ieri sul te­ma è intervenuta anche Sarah Palin. «Pos­siamo vedere le conseguenze della situa­zione nelle quotazioni dell’oro, che ha toc­cato un record in reazione ai timori sul­l’indebolimento del dollaro», ha scritto l’ex candidata vicepresidente su Face­book, secondo quanto riportato dal «Fi­nancial Times». C’è, poi, chi ha visto nel G7 economico di Istanbul, un organismo dato per morto dal G20 di Pittsburgh, il tentativo di recuperare un ruolo come «protettore» del dollaro, riconsacrato uni­co ombrello monetario dell’Occidente. Ma nelle 48 ore successive all’impegno so­lenne del ministro Geithner e dei colleghi del G7, la valuta Usa è andata a rotoli. Questi scenari, insomma, vanno presi con le molle. L’indagine pubblicata da Ro­bert Fisk sul quotidiano britannico, che è basata su fonti di vari Paesi ed è ricca di dettagli, non va, però, liquidata frettolosa­mente. Del resto le fonti citate non parla­no di mutamenti repentini, ma di gradua­le ridimensionamento del ruolo del dolla­ro che si materializzerebbe solo nel 2018. Chi oggi ha enormi riserve di liquidità investite in dollari, di certo si interroga sul futuro dei mercati valutari. il caso del Giappone, di Singapore, ma soprattut­to della Cina, esposta per più di duemila miliardi di dollari e dei Paesi del Golfo che, complessivamente, hanno anche lo­ro investito in dollari più di due trilioni dei loro proventi petroliferi. Ma se nel lun­go periodo tutti auspicano un riequili­brio, a breve nessuno ha interesse a solu­zioni traumatiche. La auspicano, ma solo per la volontà politica di destabilizzare, Paesi come Iran o Venezuela. Difficile im­maginare una rivolta contro Washington del fedele alleato giapponese o dei Paesi del Golfo, che non vogliono certo minare il ruolo Usa di contenimento dell’Iran. Al­tro cosa è una graduale modifica degli equilibri, diluita negli anni. Anche se mol­ti operatori continuano a scommettere sul dollaro che potrebbe tornare forte co­me bene-rifugio in caso di nuove crisi o conflitti, non c’è dubbio che oggi la priori­tà dell’America di Obama non è la forza della valuta, ma la ripresa produttiva del Paese e il riassorbimento di una disoccu­pazione che, prevista in crescita ancora per 6-9 mesi, rischia di mettere in ginoc­chio il Paese e di far perdere ai democrati­ci, da qui a un anno, le elezioni di «mezzo termine» e il controllo del Congresso. Studiando, per la prima volta dagli an­ni ”70, misure (generosi crediti d’impo­sta) per invogliare le imprese ad assume­re, la Casa Bianca dimostra che le esigen­ze di rilancio continuano a prevale sulla necessità di tornare al rigore fiscale. Coi tassi sempre a quota zero, non è certo un quadro che può rafforzare il dollaro. Ma il governo e la Fed cambieranno rotta solo se si riaffaccerà l’inflazione. Che oggi, con la congiuntura sempre debolissima, non rappresenta un rischio significativo.