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 2009  ottobre 06 Martedì calendario

LA RABBIA DEGLI ATOLLI


Per gli abitanti di molte piccole isole del Pacifico, la questione del clima è semplice: nel giro di pochi decenni potrebbero ritrovarsi nella scomoda posizione di cittadini di paesi che non esistono più. Prendiamo Tuvalu, stato sovrano con 12mila abitanti sparsi in nove isole coralline per un territorio complessivo di 26 chilometri quadrati. Ormai, ogni primavera gli atolli di Tuvalu sono allagati da ondate sempre più alte e tra una ventina d’anni potrebbero essere sommersi in modo permanente, via via che il livello degli oceani si innalza per effetto del riscaldamento globale. «Allora non ci saranno più tuvaliani ma solo rifugiati climatici», commentava ieri Taukiei Kitara, rappresentante dell’Associazione delle Ong di Tuvalu - uno dei «rappresentanti della società civile» mondiale che stanno seguendo come osservatori l’ennesima tornata di negoziati sul clima in corso a Bangkok, in Thailandia (le sue dichiarazioni sono riprese da Irin news, notiziario online dell’ufficio Onu per gli affari umanitari). Si dirà che Tuvalu è un caso limite: con un’altezza massima di 2 metri sul livello del mare si fa presto ad andare sott’acqua. E’ però la stessa situazione dell’intera Micronesia: si prevede che le isole più basse, dove si concentra gran parte della popolazione della regione, saranno sommerse entro il 2030. Vent’anni significa domani: mezzo milione di micronesiani si prepara a un futuro di rifugiati che hanno perso le terre a cui era legato il proprio senso di sé. Futuro altrettanto incerto per le Maldive, arcipelago di 370mila abitanti nell’oceano Indiano, atolli spesso non più alti di un metro e mezzo sul livello del mare (il punto più alto dell’intero arcipelago è 2,3 metri: per parafrasare Jacques Brel, i minareti come uniche montagne...). Il presidente delle Maldive, Mohammed Nasheed, è stato il primo governante a ipotizzare di dive evacuare la sua popolazione. Altre piccole isole fanno i conti con un altro risvolto del cambiamento del clima: isole del Caribe come Antigua e Barbuda sono spazzate da cicloni tropicali sempre più frequenti e sanno che tra dieci anni, di questo passo, le compagnie di assicurazione rifiuteranno di coprire le loro attività economiche.
Insomma: si capisce bene la rabbia dell’Alleanza delle piccole isole stato (Aosis). Sono i paesi che rischiano di più dal cambiamento globale del clima, pur essendo quelli che contribuiscono di meno a sparare nell’atmosfera i gas di serra che lo provocano. E però sono anche quelle che hanno meno potere contrattuale nell’ambito dei negoziati globali: certo non si tratta di grandi potenze.
Dunque ieri i rappresentanti dell’Aosis hanno fatto appello a una riduzione significativa delle emissioni globali di anidride carbonica e degli altri gas di serra che si accumulano nell’atmosfera terrestre, in modo da contenere il futuro riscaldamento del pianeta in 1,5 gradi centigradi in media rispetto ai livelli precedenti alla rivoluzione industriale. «Per noi è questione di sopravvivenza», diceva Leon Charles, presidente di turno del gruppo di negoziatori dell’Aosis (a Irin news). Parlava a Bangkok, dove 180 paesi stanno cercando di mettere a punto la bozza di nuovo trattato internazionale sul clima da approvare al vertice mondiale sul clima previsto in dicembre, a Copenhagen. In gioco è quanto tagliare le emissioni, entro quando, e soprattutto chi sarà tenuto a farlo - paesi industrializzati, nazioni emergenti. Ma i negoziati sono bloccati, accusa Charles: «Qui ciascuno ripete le proprie posizioni senza cercare opzioni nuove, con spirito di negoziazione. Così, a Copenhagen si prepara un fallimento».