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 2009  ottobre 07 Mercoledì calendario

CHI PAGA IL CONTO DELLA GUERRA DEL LATTE


Trenta centesimi al litro: tanto viene pagato il latte ai produttori italiani. Che sono costretti a chiudere. O a trascurare la qualità

C´è sicuramente qualcosa di surreale nel vedere le immagini di poliziotti in tenuta antisommossa, in piena città, inondati da una grandiosa pioggia di fieno. Si può restare incantati, tra il divertito e il rapito, di fronte alle foto di un contadino che spruzza di latte quegli stessi tutori dell´ordine, facendolo schizzare direttamente dalla procace mammella di una mucca placida, seppur spaesata. Invece tutto ciò è terribile. Il latte sperperato nei giorni scorsi per i campi e lunedì in strada da parte dei settemila - secondo gli organizzatori - allevatori accorsi a Bruxelles per protestare di fronte ai ministri europei dell´agricoltura è un colpo al cuore. Mettetevi nei panni di quelle persone che si sono dovute ridurre a buttare via il frutto del loro lavoro: ha del tragico.
Sono ricorsi a questo gesto disperato perché il latte non vale quasi più nulla, in Italia glielo pagano meno di 30 centesimi d´euro al litro, ampiamente insufficienti anche solo per coprire le spese delle loro aziende e fattorie.

Le mucche che spariscono dalle fattorie e gli allevatori che protestano per le gravi perdite: le vittime sono loro In 20 anni l´Italia ha perso 140mila stalle a vocazione casearia. E pure nelle aziende dove si produce carne i capi sono diminuiti. Perché il sistema non regge più
La decimazione è iniziata con i sussidi comunitari che hanno favorito le concentrazioni
I tentativi di normalizzazione hanno penalizzato piccoli e medi produttori

Dicono di perdere dai 10mila ai 15mila euro al mese con questo sistema che ormai li ha irretiti, sviliti, che gli ha tolto l´anima e ogni prospettiva. Non sarà un caso se negli ultimi vent´anni si è assistito a una vera ecatombe di stalle: nel settore lattiero-caseario siamo passati da più di 180mila nell´89 alle attuali 43mila circa. Chi fa carne se la passa forse un po´ meglio, ma non ha nulla da ridere. Anche per loro il dato diminuisce inesorabile di anno in anno.
Dovremo immaginare un Paese senza stalle? Che cosa può essere successo se ne spariscono a migliaia ogni anno sotto i nostri occhi distratti? La prima botta la diedero i sussidi comunitari, erogati in modo da prediligere le stalle più grandi, con una maggiore concentrazione di capi, falcidiando così le piccole aziende molto diffuse in Italia. La politica dei sussidi, pur modificandosi negli anni, ha poi continuato a mietere vittime: con rimborsi erogati sempre uguali per alcuni anni di seguito in funzione delle dimensioni di un´azienda dopo che è stata "fotografata" in un dato periodo, si sono addirittura incentivati coloro che abbandonavano il mestiere e tenevano le stalle vuote, pur continuando a percepire il denaro pubblico.
Logico che una tale politica spingesse alla concentrazione delle aziende. Chi decideva di non mollare, per sopravvivere ha iniziato a espandersi senza però poter fare una sensata programmazione per il futuro. Con margini di guadagno sempre più bassi l´unica cosa che paga è la quantità, un´economia di scala crescente. In un tale contesto la conseguenza primaria è che sparisce il valore della qualità, nessuno ha più interesse a produrla e il mercato finisce facilmente in mano a chi ha abbastanza potere per condizionare i prezzi a suo vantaggio. Ovvero chi distribuisce, chi compra dai contadini a meno di 30 centesimi per poi rivendere da un euro in su al consumatore finale. E di fronte a questo potere alla fine si arriva al punto che neanche la quantità paga più: la conseguenza è che si arriva a poter buttare il prodotto nei campi per protesta.
Naturalmente la storia è ben più complessa. Certo, alcuni allevatori hanno avuto la loro parte di responsabilità: alcuni magari lavorano male e non si sono neanche resi conto della profonda insostenibilità ambientale degli allevamenti intensivi (che tra l´altro oggi per loro è fonte di costi notevoli, viste le norme sempre più restrittive in tema). Anche i consumatori non si sono saputi imporre di fronte a una qualità in continua picchiata, a prodotti di non certa provenienza, venduti a prezzi sostanzialmente invariati anche quando il latte non sa più di niente e nutre poco, perché il gusto e i nutrienti vengono sottratti in fase di lavorazione e finiscono come sottoprodotti in altre catene dell´alimentazione industriale, come quelle dei biscotti e delle merendine, per esempio.
Situazione complessa, ma non c´è dubbio che oggi il mercato sia in mano ai grandi gruppi che ritirano il latte e la carne dagli allevatori. O meglio: che ritirano dopo aver imposto il loro prezzo. Il latte e la carne non sono come il Barolo che con il tempo migliora, se non si riescono a vendere quando sono pronti, tanto vale buttarli via. Così in un mercato dei grandi numeri, fatto soprattutto di grandi aziende che possono soltanto vendere attraverso questi canali, il potere contrattuale degli allevatori diventa pressoché nullo. Muoiono i piccoli; muoiono anche i grandi.
Come se non bastasse, ci si mettono di traverso anche i costi crescenti. Delle sacrosante norme ambientali abbiamo già accennato, ma gli allevatori lamentano anche un´eccessiva pressione da parte dei sistemi sanitari, che a tratti sembrano del tutto aver perso il buon senso. Un iper-igienismo che pretende di normalizzare tutto a colpi di cemento e acciaio si accanisce soprattutto con le aziende medio-piccole, le quali non è detto necessariamente che producano male o pericolosamente. Concedere deroghe, ripensare i controlli in maniera più umana potrebbe essere un modo per dare loro respiro, invece di caricarle di costi che non possono sostenere.
Sicuramente una soluzione facile non c´è, ma certo non può prescindere da un ripensamento del sistema attuale di produzione e di distribuzione. Recuperare la qualità, indicare la provenienza del latte in etichetta, ricominciare a parlare di "latti" e non di latte in modo generico - come se, per il solo fatto che è tutto bianco, sia uguale ovunque da qualsiasi bestia e da qualsiasi stalla - aiuterebbe senz´altro quelli che hanno scelto una strada più sostenibile, al servizio dei migliori prodotti che l´agroalimentare sa esprimere. La qualità, spesso confusa con la tipicità, non è soltanto un modo per spuntare un pezzo migliore o per difendere campanilisticamente una non ben precisata identità: dev´essere la priorità e dev´essere reale, tangibile, gustabile. Altrimenti ogni misura non farà altro che mettere una toppa, che avere l´effetto placebo di rallentare l´ecatombe di stalle - e di agricoltori - che caratterizza il nostro Paese.
Non appelliamoci al mercato: in questo caso è finto, inesistente, incontrollato. Il predominio del prezzo su ogni altro fattore ha spogliato di valore il nostro latte e lo stesso sta avvenendo con il nostro cibo più in generale. C´è una bella differenza invece tra valore e prezzo: equiparare i due termini porta proprio a buttare in un campo ettolitri ed ettolitri di latte che vale ben più dei 30 centesimi che gli vengono riconosciuti.
Se vogliamo difendere le stalle difendiamo i piccoli e medi produttori, facciamo in modo che non sia un´impresa impossibile per un giovane continuare a fare il lavoro dei propri padri o iniziare a cimentarsi con l´agricoltura e l´allevamento. Favoriamo la vendita diretta, le piccole aziende che hanno radicamento sul territorio e che lo rispettano. Diamo a loro i premi, diamo a loro le tutele e invogliamoli a diversificare le produzioni, a trasformare direttamente il loro latte o la propria carne, a fare le cose in maniera sostenibile. Non è un caso che le aziende biologiche di bestiame non subiscano grandi flessioni, che chi fa in proprio il formaggio o conferisce un prodotto con buoni standard per i piccoli grandi gioielli caseari italiani queste crisi le senta meno.