Federico Rampini, la Repubblica 7/10/2009, 7 ottobre 2009
Tornano le voci di fuga dal dollaro vola l´euro, massimo storico dell´oro- Terremoto provocato da voci di un summit arabo per cambiare la valuta di riferimento NEW YORK -Questa volta i soliti sospetti non sono a Pechino ma nel Golfo Persico
Tornano le voci di fuga dal dollaro vola l´euro, massimo storico dell´oro- Terremoto provocato da voci di un summit arabo per cambiare la valuta di riferimento NEW YORK -Questa volta i soliti sospetti non sono a Pechino ma nel Golfo Persico. A provocare l´ultima fuga dal dollaro sono state le voci di un summit segreto promosso dai paesi arabi produttori di petrolio, per concordare con Cina Russia Giappone e Francia la sostituzione della moneta Usa con un paniere di valute, da usare negli scambi mondiali di greggio. La notizia, riportata dall´esperto di Medio Oriente del quotidiano inglese The Independent, è stata smentita dall´Arabia saudita e dal Kuwait. Ma è bastata a far balzare l´euro a quota 1,47 sul dollaro, a far volare l´oro a 1.043 dollari l´oncia, a provocare un rialzo generalizzato di Borse e materie prime. «Praticamente – osserva in tono sconsolato il New York Times – gli investitori vogliono comprare di tutto, purché non siano dollari». Ogni altro investimento è salito proprio per effetto dell´ansia di sbarazzarsi dei dollari. Il fuggi fuggi è in atto da marzo: in questi sette mesi il dollaro ha perso il 15% rispetto all´euro. All´apice della crisi finanziaria la valuta americana aveva ritrovato brevemente il ruolo di bene-rifugio. Allora il panico travolgeva tutti i mercati dall´Europa all´Asia. Nell´incertezza estrema, gli investitori riscoprivano l´unica virtù del dollaro: la sua "liquidità", il fatto di essere la chiave d´accesso al mercato più vasto del pianeta. Passata la paura, la liquidità non è la virtù regina per gli investitori. Anche se la notizia della "offensiva araba" è stata smentita, è sufficiente che sia verosimile. «Delle discussioni informali possono avere avuto luogo», sostiene Fred Hu che dirige la divisione di Goldman Sachs per la Grande Cina (inclusa Hong Kong). Da tempo si moltiplicano le iniziative per ridimensionare il ruolo del dollaro nel commercio mondiale, e nelle riserve ufficiali delle banche centrali. I più costanti nella loro pressione sono stati negli ultimi mesi i dirigenti cinesi. A più riprese, dal G20 di Londra ad aprile fino al G8 dell´Aquila a luglio, hanno richiamato l´attenzione sui pericoli insiti nel ruolo globale del dollaro. La sua supremazia storica, avvertono i cinesi, è letale se si accompagna a politiche di bilancio irresponsabili: l´America esporta i suoi debiti, e in futuro tornerà a esportare inflazione, stampando carta moneta. I dirigenti di Pechino hanno già messo assieme una coalizione significativa: tutto il club dei Bric (Brasile Russia India Cina) nel vertice di giugno a Yekaterinburg ha fatto propria la posizione della Repubblica Popolare. Il superamento della centralità del dollaro è poi stato tradotto in gesti concreti: numerosi accordi bilaterali fra la Cina e i paesi dell´America latina prevedono l´uso del renminbi per regolare il commercio bilaterale. I cinesi non giocano allo sfascio, anzi hanno interesse a pilotare questo processo con cautela, per impedire un deprezzamento brutale del dollaro che svaluterebbe i loro investimenti in America e le loro riserve di Treasury Bonds. A Washington un indebolimento del dollaro graduale ma costante è uno scenario non sgradito: consente all´America di ripagare i suoi debiti esteri in una moneta che vale sempre meno; consoliderebbe la ripresa delle esportazioni Usa rese più competitive. Al di là dei calcoli e delle decisioni dei governi, l´economista indiano Swaminathan Aiyar (che lavora al Cato Institute di Washington) vede la fuga dal dollaro come l´inevitabile conseguenza di tendenze strutturali di lungo periodo: l´aumento del peso dell´Asia darà un ruolo maggiore alle monete di quel continente. Secondo lo storico dell´economia Paul Kennedy non può durare la situazione attuale in cui una sola nazione, gli Stati Uniti, «possiedono appena il 5% della popolazione mondiale, il 20% del Pil mondiale, ma rappresentano il 50% delle spese militari del pianeta e stampano titoli del debito pubblico che riempiono il 65% delle riserve valutarie mondiali». Secondo il finanziere Liaquat Ahamed, «l´America opera come una gigantesca banca d´affari che raccoglie depositi a breve termine dai paesi in attivo, e li investe in rischiosi prestiti a lungo termine.... a se stessa». Nel 1996 aveva un´esposizione finanziaria col resto del mondo pari a 5.000 miliardi di dollari, oggi è a quota 20.000 miliardi. «Come ogni banca troppo esposta», commenta Ahamed, «l´America può subire una crisi di sfiducia che finisce nell´assalto ai suoi sportelli».