Marco Bertoncini, ItaliaOggi 07/10/2009, 7 ottobre 2009
Il nuovo Papa sarà un africano? - Un papa africano? La domanda è sorta quando, lunedì scorso, in una conferenza stampa il cardinale Peter Turkson (arcivescovo in Ghana e relatore generale dell’assemblea speciale per l’Africa del sinodo dei vescovi), ha esplicitamente dichiarato: «La Chiesa cattolica è pronta all’elezione di un papa africano»
Il nuovo Papa sarà un africano? - Un papa africano? La domanda è sorta quando, lunedì scorso, in una conferenza stampa il cardinale Peter Turkson (arcivescovo in Ghana e relatore generale dell’assemblea speciale per l’Africa del sinodo dei vescovi), ha esplicitamente dichiarato: «La Chiesa cattolica è pronta all’elezione di un papa africano». A voler essere preciso, il presule avrebbe dovuto dire: « di nuovo pronta», perché i papi africani, nella storia della Chiesa cattolica, sono ben tre: San Vittore I (alla fine del secondo se-colo), San Milziade o Melchiade I (regnò dal 311 al 314) e San Gelasio I (sul soglio petrino dal 492 al 496). E ci furono altresì cinque papi siri, quindi asiatici, concentrati fra il 685 e il 741. Sarà però opportuno evitare improprie letture in chiave odierna, evitando di definire «arabi» o addirittura «palestinesi» alcuni di quei pontefici (del resto, c’è chi parla di un Gesù «palestinese», una sorta di Arafat, solo più pacifico). L’internazionalizzazione del papato, quindi, non è fenomeno solo recente, limitato agli ultimi due pontefici, ma venne, di fatto, paralizzata con l’italianizzazione avviata nel Rinascimento. Il primo colpo che quasi intaccò l’italico predominio si segnalò nel 1958, quando, alla morte di Pio XII, il conclave si spaccò fra Roncalli (poi eletto) e l’armeno di curia Agagianian. Giovanni XXIII agli alunni del collegio armeno segnalò, con apprezzabile immagine, che, nel corso delle elezioni, i due nomi «si avvicendavano or su or giù, come i ceci nell’acqua bollente». La prima, concreta internazionalizzazione in epoca moderna l’avviò papa Pacelli, con i suoi due unici concistori del 1946 e del ’53, in cui nominò molti più cardinali stranieri che italiani. Gli uffici di curia furono aperti ai non italiani da Paolo VI. L’elezione di un polacco segnò il coronamento di questa deitalianizzazione vaticana, confermata dall’attuale pontefice. La strada intrapresa sembra irreversibile, non foss’altro perché sul numero complessivo dei cattolici pesano sempre più le chiese dell’America Latina, e poi dell’Africa, e sempre meno quelle dell’Occidente. I condizionamenti politici dei grandi Paesi cattolici sono ricordo dei secoli andati: non si potrà ripetere il fenomeno dei pontefici tedeschi imposti dall’ Impero nella seconda metà del secolo XI, e men che meno il predominio dei francesi per decenni, nel Trecento, quando addirittura la sede papale venne trasferita ad Avignone. Le scelte dei conclavi venturi saranno frutto di schieramenti interni alla Chiesa mondiale, e d’italiano avranno una sola condizione: che l’eletto si esprima in corretta lingua italiana, perché ha da essere il vescovo di Roma, e quindi deve farsi comprendere, quando parla, dai suoi diretti fedeli. I due ultimi pontefici rispondevano a tale requisito, pur con la simpatica e iniziale battuta di Wojtya: «Se sbaglio, mi corrigerete» (il testo ufficiale reca però: «Se mi sbaglio mi correggerete»). Soprattutto, erano poliglotti, com’era Pio XII, mentre Giovanni Paolo I si arrabattava col solo francese, come del resto Giovanni XXIII (al quale sfuggì in pubblico un «campa cavallo!» a proposito del suo auspicato apprendimento dell’inglese). Il sinodo dovrebbe essere l’occasione per esprimere l’universalità della Chiesa usando la sua lingua, cioè il latino. Peccato che invece ci sia dispersi nella babele dei singoli linguaggi: all’inizio della concelebrazione inaugurale, presieduta dal papa, coro e assemblea hanno intonato sì l’Asperges me, ma pure Nakoma peto (Che io diventi puro), canto in lingua lingala. La prima lettura è stata pronunciata in francese, il salmo responsoriale in italiano e la seconda lettura in inglese. Il Vangelo (almeno quello!) è stato proclamato in latino. La preghiera dei fedeli è stata pronunciata in swahaili, portoghese, amarico, hausa, lingala e arabo. Il canto in lingua kikongo Ee Mkufu, Yamba Makabi (Signore accogli quest’offerta) ha accompagnato l’offertorio. Al termine della celebrazione, canto finale in lingua lingala, l’inno a Maria Toko-bondela yo e, Mama Maria (Ti preghiamo, mamma Maria). A equilibrare in parte questo pasticcio ha se non altro provveduto il rito, che il vaticanista de la Repubblica ha, con palese rabbia, definito «molto latino e romano, come se si avesse paura di dare spazio alla creatività della mistica del corpo africana». Senza dubbio l’attuale pontefice è più severo del suo predecessore quanto a liturgia, dunque restio a eccessi d’inculturazione e più propenso all’unità esteriore della Chiesa, pur nel rispetto della varietà dei riti. Semmai, l’unità linguistica è un ricordo del passato: anche in questo sinodo africano i circoli minori si esprimono in inglese, francese, italiano e portoghese, non in latino. L’italiano diviene sempre più lingua corrente della curia: l’attestano perfino alcuni interventi del pontefice nella nostra lingua durante la sua recente visita in Cechia (in cui alcuni discorsi sono stati in inglese, altri in ceco, mentre il presidente ospitante si è rivolto al papa anche in italiano). Ovviamente molto usato è l’inglese, mentre è in calo il francese, fino a non molti anni addietro lingua corrente soprattutto nella diplomazia vaticana (come del resto nella diplomazia di tutto il mondo).