Il Sole-24 Ore 6/10/2009;, 6 ottobre 2009
IL GIURISTA CHE PENSAVA A DE AMICIS
«Deamicisiano. Sì, deamicisiano. il socialismo che preferisco, quello da Libro cuore. Penso all’episodio del muratorino:il manovale si siede nella casa del compagno facoltoso, sporca il sofà di calcina ma il padre ospite impedisce al figlio di pulire perché, spiega, il lavoro non insudicia mai». Gino Giugni, morto ieri all’età di 82 anni, definiva così la sua scuo-la politica, con molta provocazione e ricercato understatement.
Lui che era rimasto in strettissimo contatto con Robert Reich, ministro di Bill Clinton suo omologo e amico, testimoni entrambi di una stagione di socialismo ultramoderno e, già a metà anni 90, attento alle conseguenze globali della formazione della superclasse che chiamavano degli " analisti simbolici". Erano i cittadini del mondo, quelli che Giugni e Reich vedevano legati alle nuove professioni della finanza e della comunicazione, iper-istruiti, ipertecnologici, tendenti a sentirsi apolidi e senza responsabilità (soprattutto fiscale), soggetti che, rivisti oggi, sono i prozii dei principali responsabili di quella crisi globale nemmeno lontanamente intuibile negli anni 90.
Giugni era soprattutto giurista: tesi di laurea con Giuliano Vassalli sul diritto di sciopero, fu il primo studioso che "inventò" per l’Italia il diritto sindacale; si sentiva solo in seconda battuta politico, riformista lombardiano, anticomunista e liberal di formazione perché uno dei pochi ad avere frequentato già negli anni 50 un’università americana (Wisconsin) con una borsa di studio Fullbright. Infine era ministro, il ministro della concertazione, dell’accordo del 23 luglio siglato con il governo Ciampi, quando un esecutivo di tecnici appoggiato dalle parti sociali fece una straordinaria opera di supplenza alla politica decimata da tangentopoli.
Fu soprattutto quel successo e un suo indubbio senso delle istituzioni, ancor più apprezzato perché in un partito – quello socialista ai tempi di Craxi – dove quel tipo di condotta non era certo la regola, a farlo diventare un candidato più che credibile alla presidenza della Repubblica. Al primo scrutinio sorrideva senza fare commenti; ma già dal secondo aveva capito un cambio di passo: «Pare stia diventando una cosa seria» diceva aumentando la sua, in genere impercettibile, inflessione genovese. Poi la strage mafiosa di Capaci, dove morì Giovanni Falcone, modificò il quadro politico e passò Oscar Luigi Scalfaro.
Ma Giugni era soprattutto un intellettuale, mite e minuto, affezionato alla casa piena di libri (anche grazie a una strabiliante libreria agganciata al soffitto che correva per tutti gli ambienti) e alla poltroncina fiorata da dove dispensava – dividendo il tempo a metà con lo studio ai Parioli – dichiarazioni, battute, articoli e da dove progettava anche i libri. Adorava la tecnica legislativa, il montaggio e lo smontaggio delle leggi con quel suo linguaggio disossato che aveva mutuato dall’inglese: prima lo Statuto dei lavoratori, poi la norma sul tfr, poi la legge sul diritto di sciopero, infine l’accordo del 23 luglio sulla concertazione da lui definita «una riforma di rango costituzionale».
Tanto era tendente all’ipocondria – e la lunga malattia che lo ha consumato nell’ultima stagione deve essergli sembrata ancora più crudele e cattiva ”quanto era invece spavaldo nell’affrontare i germi della battaglia politica. Sfidava soprattutto i cliché. Non temeva il "buonismo" che tanti guai procurerà ad altri. Si divertiva a ricordare che già a 7-8 anni gli faceva ribrezzo la retorica guerresca del fascismo: «Ci facevano commentare il motto eracliteo, O polemos panton pater (la guerra madre di tutte le cose
ndr), "tema poco sentito" era il giudizio del mio povero prof fascista. Ed era già molto». Del resto, del metodo europeo per il dialogo sociale, imparato da Otto Khan Freund, apprezzava l’idea che ogni conflitto è componibile se ben incanalato nelle procedure del diritto e attraverso la rappresentanza dei corpi intermedi.
Lo apprezzava così tanto da aver tradotto per primo questa disciplina nel diritto sindacale.
Razionale e ottimista. Il suo più grande successo personale, di cui parlava poco, era il dialogo che aveva avuto con i brigatisti che nell’83 lo gambizzarono (ma fu un errore perché si scoprì poi che volevano ucciderlo, «devo la vita a una certa imperizia tecnica dei miei assalitori» diceva) poco lontano dal portone del suo studio. Con quel commando riuscì nel tempo a dialogare fino a trasformare alcuni di quegli assassini in altrettanti fan. Non era raro vedere nel backstage dei convegni, dove era protagonista tra Torino e Milano, anche il "palo" di quella mattinata di piombo, applaudire al Maestro. Un’amicizia che finiva a cena, magari davanti a un piatto (scarso) di spaghetti al sugo o di riso.
Era cordiale e spontaneo. Si divertiva a ricordare ai suoi compagni di partito le origini del socialismo: «Nell’800 ci chiamavano ciucia-liter, succhia litri, perché quando la paga dei salariati era giornaliera i nostri antenati se la bevevano in una sera in osteria. Da lì è nata la consuetudine del salario settimanale e poi mensile e, addirittura, già in quell’etilico passato si può dire affondi le sue radici un istituto come il trattamento di fine rapporto ». Sapeva essere spiazzante come quando parlava da ministro delle manifestazioni che periodicamente si svolgevano sotto gli uffici di via Flavia, la sede del dicastero: «Dopo un po’ diventano un rumore abituale, è un po’ come quando acasa qualcuno passa l’aspirapolvere. Se non c’è,però,senti un vuoto».
Oggi – come molte altre volte e forse più di altre volte ”sarà definito " padre dello Statuto dei lavoratori", un altro di quei cliché che detestava perché lo chiudeva in un anfratto angusto della sua storia intellettuale. Certo che Giugni doveva la sua fama alla commissione voluta dal ministro Giacomo Brodolini per la stesura dello Statuto nel ’69, ma sentiva che il diritto vivente respirava e aveva bisogno di continua manutenzione. Le tecnologie, l’evoluzione sociale,le modifiche all’organizzazione del lavoro imponevano adattamenti perenni e " riformisti". Così rifletteva già negli anni 90 e nei primi anni 2000 sui salari differenziati al Sud,sull’economia della partecipazione, ma senza troppo entusiasmo verso la codeterminazione alla tedesca; aveva capito l’urgenza di una riforma degli ammortizzatori sociali e dell’innalzamento dell’età pensionabile. Temi lasciati in una sorta di affido culturale ad alcune delle intuizioni di Marco Biagi, anch’egli riformista e socialista, colpito a morte dal fuoco br. Come per Biagi anche a Giugni verrà dedicata – ha annunciato ieri Maurizio Sacconi – una dellesedi del ministero.
Giugni per primo capì che, dato il progresso delle tecnologie, erano diventate un controsenso le norme sul divieto di videosorveglianza dello Statuto e contribuì a modificarle in sede di prima applicazione. Sapeva che la legge 300 andava cambiata anche nella norma sui licenziamenti e aveva favorito la nascita di un avviso comune delle parti sociali sulle procedure di conciliazione che doveva servire a rendere più semplice anche la revisione della norma. Ma poi la politica e le parti sociali seguirono un percorso diverso e fu l’epopea del conflitto sull’articolo 18. La madre di tutte le battaglie sindacali. A Giugni dalla sua poltroncina fiorata probabilmente tornava in mente ancora una volta l’inutile retorica eraclitea. E sorrideva (Alberto Orioli) - COS INSIEME A GINO SALVAMMO L’ACCORDO DEL ’93 - G
ino Giugni era prima di tutto una persona «di grande onestà intellettuale. Suscitava in tutti noi grande fiducia. Era credibile, determinato e tenace ». Carlo Azeglio Campi ricorda così «il suo» ministro del Lavoro nel 1993. Lo fa rileggendo alcuni passi del libro «Socialismo, l’eredità difficile», scritto da Giugni nel 1996: «Il riformismo non può consistere di proposte di legge pensate a tavolino. Se il riformismo non ha premesse culturali chiare, può diventare uno strumento di scambio per baratti facili, e a volte anche ineguali. Un riformismo che non sia radicato su una conoscenza del Paese e dei suoi problemi scende al basso profilo e al piccolo cabotaggio».
Tutta la seconda parte dell’accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993, quella sui diritti del lavoro «è sua, è opera di Gino». Un uomo «che ha saputo combattere mille battaglie senza faziosità, anteponendo sempre l’interesse generale».
Il governo si era insediato il 29 aprile. Appena due mesi Ciampi giocava la partita più impegnativa. «Il29giugnoandaial 12?Congresso della Cisl, con la quasi assoluta certezza che i sindacati e la Confindustria non erano disponibili a firmare l’accordo sul costo del lavoro. Nel pomeriggio l’intesa sembrò quasi sfumare. Si prospettava un rinvio a settembre ». Tre mesi, un’eternità «perché i mercati finanziari avevano riposto fiducia in quella trattativa, ne avevano percepito la rilevanza». La posta in gioco era alta e ambiziosa: «Sradicare dai meccanismi di formazione dei prezzi quella che era stata negli ultimi vent’anni la causa maggiore dell’elevata inflazione », vale a dire le indicizzazioni, gli automatismi, la scala mobile. «Un mancato accordo avrebbe provocato l’arresto e l’inversione della tendenza alla riduzione dei tassi di interesse: condizione essenziale per cominciare a rendere meno gravoso l’onere del debito pubblico. Ecco perché quell’accordo andava firmato, subito, prima dell’estate».
Il giorno successivo la situazione parve precipitare in modo irreversibile. Il testo della bozza presentata alle parti sociali «fu oggetto di proposte di modifica da parte dei sindacati e della Confindustria tra di loro inconciliabili. Uscii da Palazzo Chigi a notte fonda. Alcuni giornalisti mi chiesero: presidente allora getta la spugna? Risposi: sono preoccupato ma al tempo stesso deciso a non mollare. Non potevo accettare l’idea che un’intesa di così enorme importanza per l’intera collettività fallisse quando orami era maturata in tutti la consapevolezza di una politica dei redditi fondata su un ampio concerto tra il governo e le parti sociali, che avesse come primo obiettivo quello della stabilità dei prezzi. Volli quell’accordo con tutte le mie energie, e Gino fu costantemente al mio fianco».
Fu illuminante in quei giorni per tutti noi - ricorda Ciampi un articolo che Giugni scrisse in prima pagina su un quotidiano romano. Era il 2 luglio. Questa trattativa - scriveva Giugni «non è un normale contratto: non darà né toglierà soldi né ai lavoratori né alle imprese. però qualcosa di più importante. il tentativo di scrivere una carta costituzionale delle relazioni industriali, che metta ordine e sistematicità in un campo vissuto e cresciuto in un contesto fatto di prassi, di buon senso, costruito con una miscela di prudente riformismo contrattualista ». L’alternativa a quell’accordo? Giugni la dipingeva così: «Un sistema di relazioni industriali totalmente deregolato, privo di cuscinetti e ammortizzatori nei confronti di tensioni dominate da un rivendicazionismo selvaggio » . La mattina del 2 luglio venne recapitata alle parti sociali una nuova bozza del testo. «Non era più suscettibile di modifiche», ricorda Ciampi. Prendere o lasciare. La risposta era attesa entro 24 ore: un sì oppure un no. «Il mio pessimismo si trasformò in sorpresa quando Abete, Trentin, D’Antoni e Larizza mi annunciarono il "miracolo". Il 3 luglio eravamo di nuovo tutti lì, a Palazzo Chigi per siglare l’intesa. La firma poi venne ufficialmente apposta il 23 luglio. Avevamo tutti ragione. Quel protocollo ebbe effetti positivi non solo sull’inflazione e sui tassi di interesse, ma su tutte le variabili dell’economia».
La fiducia che quell’intesa generò in Italia e all’estero «fu il segnale concreto della comune volontà delle forze della produzione e del Governo di attuare il risanamento dell’economia pubblica e privata e di realizzare le condizioni per la partecipazione del nostro Paese all’Unione europea». Un grande merito va attribuito a Bruno Trentin: «Il suo contributo fu essenziale. Si stabilì un clima di fiducia reciproca. Un uomo di grandissimo valore».
Di quel Governo il presidente emerito della Repubblica ricorda la qualità delle persone e il metodo di lavoro, collegiale, condiviso. Quell’avventura,Ciampi l’aveva cominciata così: «Ero in Banca d’Italia, in riunione con i miei collaboratori, quando mi chiamò il presidente Scalfaro. Governatore - mi disse - alle 11 verrà da lei il prefetto Iannelli con un’automobile del Quirinale. Andai a casa di Scalfaro. Caro Governatore, nel pomeriggio le darò l’incarico di formare il nuovo governo. Risposi balbettando, feci il possibile per dissaduerlo. Governatore, mi disse, non ho altra scelta. Qualche ora dopo ero al Quirinale. Lessi ai giornalisti una breve dichiarazione che sintetizzava quello che sarebbe stato il programma di governo». Ciampi rilegge ancora Giugni: «La genuina politica riformista implica che venga attribuito agli obiettivi un valore finale e non strumentale». Forza dell’impegno civile e tensione etica, con un unico obiettivo: l’interesse «della difesa autentica dei lavoratori in una realtà economica e sociale soggetta a mutamenti che seppe "leggere" con scienza e coscienza». (Dino Pesole)