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 2009  ottobre 06 Martedì calendario

IL BIPOLARISMO INIZIO’ A SEGRATE


Dopo vent’anni si ritorna al punto di partenza. Si ritorna alla guerra di Segrate, e alla competizione degli anni Ottanta, a quello che Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti furono nel romanzo della trasformazione italiana e della loro personale evoluzione. Erano due avversari che incarnavano modi diversi di essere imprenditori, ma anche due nuovi entrati, due innovatori - insieme a Raul Gardini - due alternative (di ciò consapevoli ed entrambi agguerriti) nel capitalismo italiano dell’epoca.
Ed entrambi due alternative all’icona di quel capitalismo, Gianni Agnelli. Il fattore rinnovamento era evidente nello scontro per la Mondadori, giacchè si trattava di affiancare e, al dunque, rimpiazzare alla guida della prima casa editrice del paese, una famiglia storica dell’imprenditoria italiana, la famiglia Mondadori, appunto, che nel dopoguerra era stata un emblema della milanesità al potere economico con le forme di un neoaristocratismo borghese, cui per trent’anni l’immaginario italiano è stato molto debitore.
I due si conobbero così. De Benedetti ebbe mandato da Enrico Cuccia, capo di Mediobanca, di assistere Mario Formenton, allora leader della famiglia Mondadori, per uscire dalle difficoltà in cui versava l’azienda. Emerse che una delle cause del dissesto era Retequattro. Fu deciso di venderla e l’acquistò Berlusconi.
Poi l’acquirente della tv cominciò a interessarsi a tutta la casa editrice. Fu nel disputarsi le simpatie e l’accordo con gli eredi Mondadori che il cavaliere e l’ingegnere si combatterono. Alla fine Berlusconi riuscì a convincere il lato Formenton della famiglia ad abbandonare De Benedetti. Da lì nacque il lodo arbitrale, poi il giudizio sul lodo, poi la mediazione di Giuseppe Ciarrapico e infine la spartizione: il gruppo l’Espresso da una parte, la Mondadori dall’altra.
Negli anni Novanta la contrapposizione diventò ancora più dura. Berlusconi dopo aver cercato di svolgere un lavoro di regia per mettere insieme i moderati, alla fine scende in politica, dando compimento a una tentazione delle classi dirigenti economiche, e di pezzi di quella strana cosa che è la borghesia italiana, i cui esponenti riflettono sul modo di rappresentare direttamente i propri interessi in politica almeno dalla metà degli anni Settanta.
De Benedetti, che in fondo è sempre stato il più esplicitamente politico degli imprenditori italiani, sceglie invece di restare dietro le quinte. L’editore di riferimento del centrosinistra; l’ispiratore di un blocco di forze contemporaneamente progressiste e borghesi; l’esponente di un establishment che cerca la rete internazionale (l’ascesa di CdB si interrompe proprio nel tentativo di scalata a Société Générale du Belgique fallita per un pelo); l’influente uomo d’affari che si proietta sulla politica ma non si butta: lontano dal modello degli imprenditori italiani al cospetto della lusinga politica, cioè Adriano Olivetti, di cui insieme a Bruno Visentini aveva toccato con mano i limiti, «e poco propenso nei confronti di tutti i Rathenau italiani che - come diceva un testimone di quella fase - sempre insieme a Visentini trattavano con la stessa ironia che a Rathenau riservò Musil».
Con il tempo, l’antagonismo tra Berlusconi e De Benedetti è diventato un fatto quasi necessario alla vita pubblica italiana. D’altra parte, c’è un antagonismo strutturale e inevitabile tra l’editore di Repubblica e il principale nemico di Repubblica. I due settimanali L’espresso e Panorama diventano i gadget sociali di due diverse appartenenze. Poi, quando nel 2005 si incontrano a cena dopo molti anni, l’ingegnere gli racconta di aver messo su un fondo salva-imprese e il Cav. gli dice entro anch’io con una cinquantina di milioni. L’Ing. dice di sì. Nasce il mito giornalistico del fondo M&C (di cui molto si è tornati a parlare in queste ultime settimane a causa delle tre Opa quasi contemporanee). Saranno i rispettivi sostenitori a dir loro che non è possibile, l’alleanza tra i due avversari non si può fare. Ezio Mauro scrive un editoriale che si intitola «Il diavolo e l’acquasanta», cioè quello che i due sono stati nella storia recente del paese. Il grande accordo non si fa.
Prima della campagna di Repubblica sul caso Noemi, per qualche anno, dopo il 2005, De Benedetti e Berlusconi si erano quasi ignorati. Ma dietro una specie di fair play dei rapporti personali (qualcuno dice che in realtà si sono persino simpatici) hanno continuato a combattersi. Il leader coriaceo del centro-destra e il detentore morale della prima tessera del partito democratico, lo sponsor del ricambio ai vertici del centrosinistra, il sostenitore di Walter Veltroni e Francesco Rutelli. De Benedetti ha continuato a perseguire la sentenza civile sul Lodo sostenendone gli elevati costi legali e l’altra sera, quando è arrivata, era euforico. Berlusconi ha detto che è aldilà del bene e del male. Adesso entrambi dovranno fare i conti con una sentenza che è inevitabilmente politica, perché arriva al culmine di uno scontro tra il più importante giornale del gruppo L’espresso e il presidente del consiglio, a tre giorni dall’uscita televisiva di Patrizia D’Addario ad Annozero, a ridosso di una manifestazione di piazza antiberlusconiana, e alla vigilia della decisione della Corte costituzionale sul lodo Alfano. Ma c’è già chi scommette che le forze della infaticabile mediazione italiana siano già al lavoro per un nuovo - e definitivo - lodo Mondadori.
Marco Ferrante