varie, 6 ottobre 2009
ADDIO GINO GIUGNI - TUTTI GLI ARTICOLI
ADDIO AL PADRE DELLO STATUTO DEI LAVORATORI-
GIUSEPPE BERTA PER LA STAMPA DEL 06/10/2009
Aveva un sorriso ironico, Gino Giugni, quando sentiva citare il suo nome, seguito dall’inevitabile definizione di «padre dello Statuto dei lavoratori».
Penso che a lungo gli avesse dato noia quell’etichetta che gli veniva regolarmente appiccicata dai media; poi aveva finito col rassegnarvisi, forse perché proprio quella stagione - gli intensi Anni Sessanta, per lui così fervidi di attività - era stata la stagione più decisiva della sua vita, persino più importante di quella in cui aveva raccolto i frutti maturi di una carriera operosa e fattiva, culminata col suo ruolo di ministro del Lavoro nel governo Ciampi, quando era stata istituzionalizzata la politica della concertazione, con l’accordo fra governo e parti sociali del luglio 1993.
Quell’identificazione di Giugni con lo Statuto dei lavoratori è stata comunque inevitabile, perché lo Statuto (come si legge nel bel ricordo autobiografico di Giugni, La memoria di un riformista, Il Mulino 2007) ha rappresentato «un vero e proprio spartiacque per la classe operaia italiana». Un discrimine fra il periodo in cui «la condizione operaia era fortemente sottoprotetta» e quella successiva, in cui è stata garantita da un articolato sistema di tutele.
Nella fase compresa fra la Ricostruzione e l’Autunno Caldo l’azione sindacale nelle fabbriche era stata precaria e discontinua, caratterizzata da un’evidente asimmetria di potere e di influenza rispetto alle direzioni aziendali. Era da questo divario che aveva preso le mosse il progetto di uno statuto a difesa dei diritti dei lavoratori, cui Giugni si era applicato, verso la fine del decennio sessanta, come consulente legislativo del ministro socialista Giacomo Brodolini, che morì prima di veder approvata dal Parlamento la legge a cui aveva dedicato tutte le sue estreme energie. In questo senso, per i suoi artefici l’articolo fondamentale dello Statuto non è tanto il 18, quello sulle riassunzioni, su cui ci si è accapigliati tra governo, Confindustria e Cgil alcuni anni fa, quanto il 28, che sancisce alcuni principi a difesa dell’attività sindacale sul luogo del lavoro e che impedisce che un lavoratore possa essere licenziato a motivo della sua militanza come sindacalista di base. Bisognava cancellare per sempre la traccia dei reparti confino e della discriminazione sindacale nelle aziende, che aveva lasciato un profondo sedimento negativo nella vita collettiva dell’industria.
Era certamente così che la pensava il riformista Giugni, il quale non era affatto per una difesa a oltranza della sua creatura. Anzi, ricordando l’iter parlamentare che aveva portato alla sua approvazione (con la semplice astensione, e non col voto a favore, del Pci!) all’inizio del 1970, disse in seguito che avrebbe preferito norme meno protettive a vantaggio degli assenteisti. Perché Giugni apparteneva a una sinistra atipica: giovanissimo aveva aderito alla scissione socialdemocratica di Saragat; era andato in America a studiare il diritto del lavoro dell’età di Roosevelt e del New Deal; aveva lavorato negli uffici studi delle Partecipazioni Statali, alla ricerca di un assetto delle relazioni industriali che garantisse sia la condizione dei lavoratori che l’efficienza produttiva dell’impresa.
Perciò Giugni era tutt’altro che proteso verso una difesa della lettera dello Statuto dei lavoratori. Al contrario, era convinto che le sue norme dovessero evolversi in parallelo al mutamento della cornice economica e sociale del mondo della produzione. Non a caso, il suo impegno riformista lo espose alla violenza del terrorismo, che lo colpì con tre pallottole nel maggio 1983, quando stava lavorando alla revisione della scala mobile. Il coronamento della sua lunga attività sarebbe giunto, come si è detto, con la partecipazione al governo diretto da Ciampi, destinato a introdurre il metodo della concertazione, in cui Giugni si riconobbe totalmente.
La sua biografia resta probabilmente una delle testimonianze più eloquenti di un’epoca in cui era possibile conciliare un rigoroso impegno intellettuale con l’attività politica concreta, quando ancora si potevano tradurre in articoli di legge le proprie convinzioni politiche e sociali, nell’intento di incidere profondamente sulla realtà.
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L’ADDIO A GINO GIUGNI. CAMBIO IL MONDO DEL LAVORO -
PIETRO ICHINO PER IL CORRIERE DELLA SERA DEL 06/10/2009
Per capire e apprezzare l’importanza del contributo che Gino Giugni ha dato al diritto del lavoro italiano occorre considerare lo stato in cui versava questa branca del diritto negli anni ”50. L’Italia, appena uscita dal ventennio fascista, non aveva affatto le idee chiare sulle possibili alternative al modello corporativo.
Era ancora molto radicata la concezione del resto in parte recepita nell’articolo 39 della nuova Costituzione del sistema delle relazioni sindacali come appendice dell’ordinamento statale, da questo dipendente sotto ogni aspetto, regolata dalla legge in ogni elemento della propria struttura. Giugni era stato a studiare negli Stati Uniti, insieme a Federico Mancini; e ne era tornato con una concezione nuova del diritto e dello Stato, del ruolo creativo che in esso possono svolgere le formazioni intermedie e le associazioni sindacali in particolare, della necessità di coniugare lo studio del diritto del lavoro con quello dell’economia e della sociologia. Nella situazione di impasse in cui il diritto sindacale statuale venne a trovarsi negli anni Cinquanta in conseguenza delle difficoltà di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, Giugni diede uno scossone salutare alla nostra cultura giuslavoristica mostrando come il sistema delle relazioni sindacali non avesse affatto bisogno della benedizione dello Stato per vivere e produrre risultati apprezzabili: come, cioè, esso fosse capace di fondare da sé, autonomamente, un proprio ordinamento giuridico (una lezione che ancor oggi troppo sovente viene ignorata).
Ma la lezione di Giugni non era certo nel senso della rassegnazione a una incapacità dell’ordinamento statuale di interagire positivamente con il sistema delle relazioni sindacali: fra l’uno e l’altro occorreva costruire un collegamento organico. Un collegamento che, per un verso, consentisse allo Stato di perseguire efficacemente una propria politica del lavoro, per altro verso non mortificasse la libertà creativa della contrattazione collettiva. Fu questo soprattutto a far data dalla seconda metà degli anni Sessanta l’impegno principale di Giugni, in qualità di consigliere del ministro del lavoro socialista Brodolini nel corso della lunga gestazione dello Statuto dei lavoratori che avrebbe poi visto la luce, subito dopo l’«autunno caldo», nel maggio 1970.
Fra le due correnti giuslavoristiche dominanti quella più vicina alla Cgil, tendente a un forte e compiuto intervento legislativo per la definizione dei diritti dei lavoratori, e quella più vicina alla Cisl, che teorizzava l’astensione del legislatore statuale come regola generale, in funzione della massima e più libera possibile espansione della contrattazione collettiva fu Giugni a indicare la via della sintesi, facendo ricorso a una tecnica normativa destinata nei decenni successivi a rivelarsi efficacissima.
Lo Statuto del 1970 è forse la legge in materia di lavoro che ha prodotto la maggior messe di risultati coerenti con l’intendimento originario effettivo del legislatore; ma è anche una legge che ha lasciato al sistema delle relazioni sindacali una amplissima libertà di evoluzione e di adattamento alle nuove esigenze, nell’arco di tre decenni, dagli «anni ruggenti» dei consigli di fabbrica al «protocollo Scotti» del 1983, fino all’ultimo capolavoro dello stesso Giugni: quel «protocollo» del luglio 1993 che è stato lui stesso, qui in veste di ministro del Lavoro del Governo Ciampi, a ideare e a far accettare alle parti contrapposte. Quel «protocollo» (che è stato a buon diritto considerato per quindici anni come la «carta costituzionale » del sistema italiano di relazioni industriali) era destinato a costituire lo strumento decisivo per consentire all’Italia di vincere la sfida di Maastricht ed entrare coi primi nel sistema monetario europeo.
A causa del suo contributo alla scrittura dello Statuto dei lavoratori del 1970 Giugni ne è stato indicato come il «padre». Ma questo non gli ha impedito di essere fra i primi a cogliere i segni del declino del mondo in cui lo Statuto era nato e a teorizzare la necessità di un adattamento ai tempi nuovi di tutto il diritto del lavoro, compresa la materia dei licenziamenti. Per favorire questo aggiustamento si è adoperato negli anni Ottanta e Novanta in veste di presidente della Commissione lavoro del Senato prima, poi di presidente della Commissione di Garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici. Uomo-cerniera fra il movimento sindacale e le istituzioni democratiche, per questo i terroristi di sinistra nel 1984 lo colpirono con l’intento di ucciderlo, come avevano colpito Tobagi, Rossa, Tarantelli, e tanti altri; e come poi avrebbero colpito, molti anni dopo, Massimo D’Antona e Marco Biagi.
A conclusione di una intervista del 1992 (la si può leggere ora nel libro «Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana», Giuffrè, 2008) che ripercorre per quaranta pagine tutte le tappe precedenti della sua vita di ricerca e di lavoro politico, Giugni si definisce «uno studioso prestato alla politica». Proprio per questo è stato un ottimo politico: perché non ha mai cercato il potere per il potere, ma lo ha sempre esercitato soltanto con l’intento di realizzare il modello di democrazia e di giustizia da lui stesso affinato in una vita di studio e di dialogo aperto con tutte le correnti culturali più vive e feconde.
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UN RIFORMISTA DI NOME GINO
GIULIANO CAZZOLA PER IL RIFORMISTA DEL 06/10/2009
Insieme a Federico Mancini, Gino Giugni è stato uno dei più importanti giuristi italiani del secondo dopoguerra e il fondatore del moderno diritto sindacale. Negli anni 50 gli studi del diritto del lavoro - che il codice civile del 1942 aveva rinchiuso nella trappola del sistema corporativo - erano alla ricerca di un profilo compatibile con il nuovo regime democratico appoggiandosi agli istituti classici del diritto privato. Tale ricerca, tuttavia, si muoveva in un contesto asfittico in assenza di un ordinamento sindacale in grado di affrontare e risolvere i temi della rappresentanza, della rappresentatività e di conseguenza dell’efficacia della contrattazione collettiva. Il legislatore costituzionale aveva disciplinato l’insieme di questi problemi - più pratici che teorici - nell’articolo 39 della Carta del 1948.
In proposito, va notata, in continuità con la natura della contrattazione collettiva del periodo corporativo, la preoccupazione della legge fondamentale di garantire, mediante le regole della rappresentanza e della rappresentatività, l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di categoria. Ma l’articolo 39 non aveva trovato applicazione per i noti motivi che ancora adesso impediscono la definizione di un quadro di regole in mancanza di un’intesa tra le grandi confederazioni storiche. Del resto, le indicazioni della norma costituzionale risentivano parecchio degli assetti ereditati dal corporativismo ancorché temperati dal riconoscimento della libertà di organizzazione sindacale.
La dottrina di quel tempo, tuttavia, restava confinata nell’ambito delle «speranze deluse» (l’espressione venne usata dal prof. Navarra), limitandosi a interpretare - de jure condendo - l’articolo 39 e a commentare i disegni di legge attuativi presentati (inutilmente) dai ministri del Lavoro di volta in volta in carica. L’attività che le parti sociali andavano ugualmente svolgendo era liquidata con un classico «hic sunt leones»: una sorta di "terra di nessuno" dove veniva preso a prestito il contratto di diritto privato che valeva solo per gli iscritti ai sindacati stipulanti.
Gino Giugni rovesciò questa impostazione pubblicando, per Giuffrè nel 1960, (era poco più che trentenne) il saggio "Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva" dove il diritto sindacale veniva interpretato alla luce delle teorie degli ordinamenti giuridici di Santi Romano. Si trattò di una vera e propria rivoluzione copernicana, di una "visione" che apriva agli studi giuslavoristici praterie sterminate, alla ricerca di un sistema di relazioni fecondo e vitale - ancorché costituito al di fuori della previsione della Carta del 1948 - e dimostrava come il nuovo ordinamento intersindacale, di natura extra-costituzionale (ma non anticostituzionale), avesse comunque un fondamento nei principi generali e fondativi della Repubblica e si avvalesse di un quadro molto ampio di legittimità. In sostanza, l’ordinamento sindacale aveva trovato nell’ordinamento giuridico altri capisaldi sui quali costruire la propria solidità. Alla cultura giuslavoristica fu aperto così un mondo nuovo, una sorta di Eldorado ricco di suggestioni che fece presto dimenticare le litanie per la mancata applicazione del disegno costituzionale. In fondo, è sempre quella "scoperta" di cinquant’anni or sono che, sia pure con alcune varianti, alimenta tuttora il diritto sindacale e del lavoro. Senza quell’intuizione geniale non ci sarebbero mai state le misure legislative che hanno fatto la storia del diritto del lavoro. A partire dallo Statuto dei lavoratori, di cui Giugni fu protagonista. Chi mai - prigioniero di una concezione formale del diritto - avrebbe attribuito, infatti, tanto potere - al pari di quello riconosciuto dalla legge n. 300 del 1970 - a organizzazioni sindacali, in regime di associazioni di fatto (articoli 36 e seguenti del Codice civile) e sottratte a quegli adempimenti formali previsti dall’articolo 39 della Costituzione?
Così, fin dai primi anni 60, la scuola di diritto del lavoro di Bari (fondata da Giugni) insieme a quella di Bologna (raccolta intorno a Mancini) contribuirono fortemente a dare spessore e autonomia alla materia, ad allargarne gli orizzonti e a importare esperienze di diritto comparato. I due erano amici. Anni prima, si erano conosciuti, giovani brillanti laureati, sulla motonave (il ricordo di quel viaggio è stato il leit motif della commemorazione funebre scritta da Gino in occasione della morte di Mancini) che li portava negli Stati Uniti a perfezionare la loro formazione (l’idea dell’ordinamento intersindacale è fortemente ispirato ai principi anglosassoni della common law) . Sempre all’inizio degli anni 60 si affermava anche in Italia, insieme allo sviluppo dell’apparato produttivo, un fervore di idee per la modernizzazione delle relazioni industriali. Giocarono un ruolo importante in tal senso l’industria a partecipazione statale e l’istituzione di proprie organizzazioni datoriali (l’Intersind per le aziende metalmeccaniche e l’Asap per quelle chimiche) distinte dalla Confindustria, col preciso mandato di ricercare un dialogo con i sindacati e di favorire in tutti i modi il rinnovamento della cultura giuslavoristica. in tale contesto che alla fine del 1962 tra le federazioni dei metalmeccanici e l’Intersind e l’Asap venne stipulato quel Protocollo istitutivo della contrattazione decentrata, nel quadro di quella nazionale di categoria, che è tuttora alla base del nostro modello di negoziazione collettiva.
Militante socialista, nella primavera 1969 Giugni divenne capo dell’ufficio legislativo del ministro del Lavoro Giacomo Brodolini. Quando pochi mesi dopo Brodolini morì, il suo successore, il democristiano Carlo Donat Cattin lo confermò in quell’incarico che divenne strategico, durante l’autunno caldo, per porre le basi già nel contratto dei metalmeccanici di quello Statuto dei lavoratori che venne varato dal Parlamento nella tarda primavera dell’anno successivo. Dopo essere stato vittima di un attentato delle Brigate rosse, a cui sopravvisse, gravemente ferito, soltanto perché il commando omicida sbagliò la mira, Giugni passò alla vita politica attiva. Fu per alcune legislature eletto al Senato e presidente della commissione Lavoro. Nel 1993 divenne ministro del Governo Ciampi e fu protagonista del Protocollo che ha normalizzato e regolato le relazioni industriali fino ad oggi, il cui impianto è stato meglio definito, ma non stravolto, dall’accordo quadro del 22 gennaio di quest’anno. Quando non era impegnato direttamente in politica, Giugni ha messo più volte il suo sapere e la sua esperienza al servizio delle istituzioni. Furono commissioni da lui presiedute a mettere a punto la riforma del tfr all’inizio degli anni 80 (che consentì di evitare un referendum con effetti devastanti) e a redigere una proposta organica e compiuta di riforma della contrattazione nel 1997. Di quest’ultima commissione, istituita dal Governo Prodi, erano componenti anche Massimo D’Antona e Marco Biagi.
Il crudele destino di una lunga malattia invalidante ha privato il Paese della presenza attiva di un grande intellettuale. Il suo autorevole pensiero avrebbe sicuramente orientato il mondo del diritto, la politica e le parti sociali ad affrontare con coraggio le nuove sfide del lavoro. Ci sono mancate e ci mancheranno le sue intuizioni. Ma chi ha avuto il privilegio di conoscerlo ne ricorderà per sempre l’intelligente ironia, la capacità di trovare le soluzioni adatte in ogni situazione. Di Gino, che ho conosciuto nel lontano 1967, potrei ricordare - con riconoscenza - tanti episodi. Mi limiterò a uno solo. Parlando del Psi ormai morente, nel 1993, Giugni (riformista e riformatore) paragonò il socialismo democratico al protagonista del film di Frank Capra "La vita è meravigliosa". Tutti si accorgono di quanto la sua vita fosse stata importante quando un angelo, venuto in suo soccorso, mostra in quali condizioni degradate vivrebbe la sua comunità se lui non fosse mai nato. Oggi mi conforta pensare a quanto sia migliore il mondo grazie a persone come Gino.
Addio indimenticabile Maestro. Nell’Aldilà dei Giusti i grandi giuristi di tutti i tempi hanno imbandito per te una mensa celeste. Come recita il salmo.
*vicepresidente della commissione Lavoro della Camera