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 2009  ottobre 05 Lunedì calendario

Perché nel 2009 si muore in Afghanistan- Siamo in guerra? Siamo in pace? I soldati tedeschi hanno lanciato bombe: questa la notizia shock dei primi di agosto

Perché nel 2009 si muore in Afghanistan- Siamo in guerra? Siamo in pace? I soldati tedeschi hanno lanciato bombe: questa la notizia shock dei primi di agosto. Dopo la morte di sei soldati italiani anche il governo di Roma discute sul ritiro dall´Afghanistan. Proprio perché in questo modo è stata disturbata o distrutta l´ovvietà della pace in Europa, questa potrebbe non essere l´ultima notizia funesta. Perciò si pone all´ordine del giorno la domanda: a che scopo muoiono soldati italiani, tedeschi, britannici, francesi, americani – e, non ultimi, innumerevoli civili! – nel 2009 in Afghanistan? Per la difesa degli interessi di sicurezza delle nazioni europee nell´Hindu-Kush? Perché non si ripeta mai un 11 settembre? Per la conquista e la sottomissione dell´Afghanistan da parte delle truppe della Nato? Per l´affermazione del capitalismo e della libertà di mercato? Per la democratizzazione del Paese? Per la vittoria sui talebani, che osteggiano i diritti delle donne come il diavolo? No, si tratta piuttosto di un mutamento di paradigma nella sfera militare, ossia del modo in cui nella civiltà minacciata da sé stessa e quindi nell´irrevocabilità della politica interna mondiale i rischi globali, che minacciano tutti sul piano esistenziale ma non sono più chiaramente identificabili e localizzabili, possono essere combattuti o minimizzati "preventivamente", cioè senza che si compia la catastrofe della civiltà. La novità sta nel fatto che in generale nella trappola dei rischi globali il principio di compensazione – denaro in cambio dei danni – , che rende tollerabile, anzi normalizza il limitato incidente (d´auto) non funziona e deve essere sostituito con l´imperativo della prevenzione o della precauzione. Se il mutamento climatico causato dall´uomo ha superato il punto di non ritorno, se i terroristi dispongono di armi atomiche, se l´economia mondiale è ormai implosa, allora è troppo tardi! Dunque, dobbiamo investire in nuove tecnologie, sviluppare nuove concezioni della giustizia, ridurre i consumi, pompare contributi di miliardi nelle banche in affanno – per impedire "il peggio", che non deve mai avvenire e dinanzi al quale i nostri concetti non ci soccorrono più. Che in base a questa stessa logica anche in Afghanistan venga ormai condotta una "guerra di prevenzione del rischio" – prevenzione mediante la guerra! Ovvero, per usare una formulazione più incisiva e paradossale: guerra alla guerra! – , e che in questo modo siano stati cancellati i chiari confini tra la guerra e la pace, tra l´amico e il nemico, tra servizio militare e servizio civile, finora non è stato realmente compreso. Nessuno dei responsabili vuole pronunciare la parola "guerra", perché "guerra" significa guerra degli Stati. E in questo senso effettivamente non si tratta di una guerra. La Nato non vuole conquistare l´Afghanistan, ma aiutarlo a muoversi con le sue gambe, a difendersi da sé, a creare e a riempire di vita istituzioni democratiche. Tuttavia questo non deve avvenire per disinteresse e come un fine in sé stesso, ma come mezzo allo scopo di mettere al bando il terrorismo. Corrispondentemente si parla del ricorso alla violenza militare con toni da portatori di pace, si etichetta ciò che accade con formule plastificate di tipo orwelliano: "missione di pace", "intervento umanitario", "umanitarismo militare", ovvero "military operations other than war". Fu nientemeno che Carl von Clausewitz a sottolineare, nel suo classico "Sulla guerra", la storicità di quest´ultima. Secondo lui ogni epoca, avendo il proprio tipo di guerra, necessita di una specifica teoria storica e di un´altrettanto specifica diagnosi temporale della guerra. Per distinguere a grandi linee il tipo di guerra praticato nella società mondiale del rischio dai suoi precedenti epocali occorre tenere presente che, come dimostra Clausewitz, la concezione della guerra propria del XVIII secolo si basava sull´equilibrio delle potenze militari, rispecchiando in questo modo il fascino newtoniano delle strutture e delle istituzioni meccanicistiche che caratterizzavano quel periodo. Invece, con la guerra fredda da un lato venne introdotto, sotto il segno dell´autoannientamento atomico, l´imperativo della prevenzione, nel senso che l´anticipazione della catastrofe dell´umanità e del suo impedimento divenne la norma ispiratrice della politica della sicurezza nel presente. D´altro lato, con la Nato e il Patto di Varsavia si contrapposero l´una all´altra due grandi potenze atomiche chiaramente identificabili e per principio imputabili. Dopo la fine della Guerra fredda e il crollo dell´ordine mondiale bipolare al posto degli attori che potevano essere indicati concretamente e del loro potenziale militare subentrò la nuova imponderabilità e indeterminabilità delle catastrofi anticipate, che comunque devono essere impedite. Vengono meno i confini sociali del pericolo; nel mirino dell´apparato militare entrano i failed states, gli attori non-statali e le reti che operano nell´ombra, da cui possono giungere i potenziali attacchi. In questo modo scompare la distinzione tra nemico e amico, tra civile e soldato, tra guerra e pace. Vengono meno i confini spaziali delle minacce: questo vale tanto per il mutamento climatico e le sue conseguenze, quanto per i crolli del sistema dell´economia mondiale; ma anche il terrorismo si globalizza e si organizza servendosi di nuovi mezzi di circolazione e di comunicazione (Internet, l´e-mail, i flussi di persone, la circolazione elettronica del denaro). Infine, vengono meno anche i confini oggettivi del pericolo. Si tratta dell´idra dai molti volti dei rischi globali percepiti come se fossero realtà in atto: il terrorismo transnazionale, la diffusione delle armi di sterminio di massa, i mutamenti climatici – che danno luogo ad esplosioni di violenza e producono fiumi di esuli per cause climatiche – ma anche le conseguenze dei crolli dell´economia mondiale, ecc. Molti pericoli non sono diretti, intenzionali e consapevoli, bensì indiretti, non intenzionali o inconsapevoli. In questo modo eventi lontani, eventi possibili e catastrofi che potenzialmente si collegano tra loro al di là di tutti i confini diventano l´occasione di interventi militari "preventivi". L´obiettivo è minimizzare in modo "post-eroico" i rischi per la sicurezza, in molti sensi "sconfinati". In questo senso, da una parte si tratta di creare l´ordine di una società civile democratica in territorio straniero, ciò che evidentemente non è possibile senza l´assenso della popolazione e senza una sua collaborazione attiva. Questo nuovo ibrido di potenza militare e di Amnesty International difende e crea l´ordine cosmopolitico liberal-democratico nel territorio di altri Stati, ma lo fa nei confronti di parti in conflitto che spesso violano entrambe senza scrupoli i diritti umani. Dunque, esso svolge, sulla base di regole militari, funzioni di polizia nella politica interna mondiale. Stigmatizzare tutto ciò come violazione del diritto internazionale (come fanno certi partiti di destra e di sinistra) è non solo storicamente cieco ma, soprattutto, significa non tener conto degli intrecci e dei vincoli che nascono dalla politica interna mondiale. D´altra parte, però, controllare militarmente il rischio globale dà luogo ad una inquietante e subdola dinamica, carica di ambiguità: il rischio è esistente e non-esistente, presente e assente, incerto e probabile. Può essere immaginato ovunque, giustificando così una militarizzazione del pensiero e dell´azione all´insegna dell´imperativo della prevenzione, che ubbidisce al calcolo paradossale e controproducente in base al quale un attacco militare mirato compiuto oggi preserverà domani il mondo da un disastro atomico – guerra alla guerra atomica! (Traduzione di Carlo Sandrelli)