pdf, 5 ottobre 2009
Luciano Regolo LAREGINELLASANTA Tutto il racconto della vita di Maria Cristina di Savoia, sovrana delle Due Sicilie Prima edizione febbraio 2000 Tutti i diritti riservati © 2000 by Simonelli Editore s
Luciano Regolo LAREGINELLASANTA Tutto il racconto della vita di Maria Cristina di Savoia, sovrana delle Due Sicilie Prima edizione febbraio 2000 Tutti i diritti riservati © 2000 by Simonelli Editore s.r.l. - via G. Leopardi 2 - 20123 Milano Direzione Operativa: via G. Verdi 5 - 20121 Milano tel. 0289010492 e-mail: ed@simonel.com Internet: http://www.simonel.com ISBN 8 8 - 8 6 7 9 2 - 2 2 - 0 Queste sono pagine-saggio che non rispondono completamente all’immagine grafica del volume pubblicato e di cui è vietata la vendita come la diffusione oltre la persona che le ha ”scaricate” on line. Ogni abuso e violazione sarà perseguito a termini di Legge pert u t e l a re i diritti editoriali e d’autore . Simonelli Editore 1 . ’Una bambina bella e paffuta... che mortificazione!” Napoli, un pomeriggio di maggio 1997. Un’aria grave pervade la penombra. L’odore di antico si fonde con quel- lo dell’incenso e di cera disciolta. C’è silenzio, un inverosimile silenzio nella Cappella di San Tommaso a Santa Chiara. Si distingue appena la sagoma di una donna corpulenta, tutta vestita di nero, con un velo sul capo. Ha le spalle chine, le gambe gonfie piantate sul pavimento, vecchio retaggio di fasti barocchi. Passa qualche minuto e la devota accenna a una sorta d’inchino. Si volta e squarcia il silenzio, con una voce cantilenante, emozionata: «Reginella mia, aiutami tu!». Poi si allontana lesta, con la sua caratteristica andatura ondeggiante e la borsa di cuoio sformata dall’uso. Solo allo- ra l’occhio cade sui cuori d’argento, sui tanti ex voto e sul cofanetto per le grazie da chiedere per iscritto, che circondano un modesto monumento, sormontato dalla corona e dallo scettro dei Borbone. E l’iscrizione latina chiarisce definitivamen- te il piccolo enigma: HIC JACETCORPUS SERVAE DEI M A R I ACHRISTINAE AS A B A U D I A UTRIUSQUE SICILIAE REGINA RECOGNITUM AB E.MO AC R.MO D. XISTO S.R. E. CARD. A R C H I E P. NEAP. QUI ANNUNENTE A P O S TOLICO NUNCIO AD HANC ECCLESIAM A C C E S S I T DIE 31 JANUARII 1853.1 La data è quella che avvolse ancor più di mistero la storia della reginella Maria Cristina, vissuta appena ventitré anni, due mesi e diciassette giorni, come ricorda la dicitura finale. Già, perché quel 31 gennaio 1853, a diciassette anni esatti dalla morte, le sue spoglie furono trovate intatte. I capelli incredibilmente rigogliosi, tanto che fu impossibile estir- parne uno per trarre una reliquia. Ma la cosa più straordinaria fu il profumo persistente che calò nella «Stanza dei depo- siti», non appena si aprirono le tre casse che avevano custodito il corpo di Cristina. La voce corse di casa in casa. E da Napoli si diffuse in tutta Italia: la «Reginella», di cui nessuno aveva dimenticato la bontà, «era davvero una santa». Il 9 luglio 1859 Pio IX riconobbe a Maria Cristina il titolo di «Venerabile». Da allora più volte la beatificazio- ne parve imminente. Specie il 6 maggio 1937, quando Pio XI firmò il decreto che riconosce le «virtù eroiche» della sovrana. Anche se la gloria degli altari, non è mai arrivata, nulla cambia per i suoi devoti. Tantissimi e appassionati a Napoli, che, da più di centosessanta anni, le affidano i bimbi e la cura di ogni problema familiare. Più discreti, eppure numerosi, nel resto d’Italia, dove abbondano le associazioni di donne cattoliche, impegnate nella cultura e nella bene- ficenza, che portano il nome della regina borbonica. Tanto che ancora oggi può valere ciò che scrisse, nel 1924, Benedetto Croce, autore di un poco conosciuto saggio biografico sulla giovane monarca: «La sua tomba in Santa Chiara è oggetto di culto popolare e, intorno, vi aleggia fama di grazie impetrate e di prodigi»2. Ha avuto un destino davvero insolito questa donna ventenne, che regnò sul Sud per appena quattro anni a fian- co del marito Ferdinando II. Settentrionale per carattere e abitudini, è tuttora adorata dai Meridionali. Ultima nata dei Savoia, che, dopo la morte di suo zio Carlo Felice, vennero soppiantati dal ramo cadetto dei Carignano per la mancanza di discendenti maschi, diede alla luce l’ultimo re delle Due Sicilie, quel Francesco II, detronizzato proprio dal cugino alla lontana Vittorio Emanuele II. Contraddizioni, coincidenze, misteri, paradossi si addensano intorno a un personaggio che, di solito, intriga di primo acchito, ma di cui poco si conosce, a parte i tanti ritratti apologetici, intrisi di antiquato moralismo. La storia terrena di Maria Cristina comincia, già in modo anomalo, a Cagliari, dove si trovava esule la sua fami- glia nell’era napoleonica. Suo padre Vittorio Emanuele I3, quando la moglie Maria Teresa, un’Asburgo, restò incinta, assaporò la speranza di dare finalmente un erede alla dinastia. Lui e tutti i Savoia attendevano questo evento dal maledetto 9 agosto 1799, quando il suo unico figlio maschio, il piccolo Carlo Emanuele4, era volato in cielo senza neppure aver terminato il terzo anno di vita. Il principino era stato stroncato dal vaiolo, ma il dolore per la sua perdita fu così grande che, a lungo, corsero a corte terribili voci sulla sua f i n e . Lo conferma, fra l’altro, quanto dichiarò l’abate Giovanni Schiaffini, uno dei confidenti spirituali della regina Maria Teresa, durante il processo di beatificazione di Maria Cristina: Ebbe essa (la Venerabile, n d r.) un fratello, il quale, per quanto mi sembra [...] morì e probabilmente avvelenato, giacché il Medico gli dava una tal medicina che lo faceva contorc e re, e dopo morto gli si distaccavano spontaneamente i capelli.Lo stesso Schiaffini ci ha lasciato un’im- 2 portante testimonianza sulla ferita lasciata nel cuore di Maria Teresa dalla scomparsa del figlioletto: R i c o rdo su tal rap- p o rto di avere inteso un tal Avvocato Graziani che la madre della Venerabile Regina avendo veduto in Genova un figlio dello stesso Graziani dell’età di quattro anni disse piangendo che le pareva di vedere il suo figlio5. Né minore peso esercitava quel tragico ricordo su Vittorio Emanuele I. Il re portava sempre con sé, ovunque andasse, un ricciolo del suo principino: lo aveva chiesto, in lacrime, al chirurgo militare che aveva imbalsamato la sua creatura e, baciandolo, aveva giurato che non se ne sarebbe mai più separato6. Solo un altro bimbo maschio, dunque, avrebbe potuto lenire il dolore e il senso di colpa di Vittorio Emanuele per il piccolo erede perduto. La tenera partecipazione del re alla nuova gravidanza della consorte è documentata dalle lettere che vergò in francese al fratello Carlo Felice7. La mia cara moglie- scriveva il 18 aprile 1812 - ha fatto una buona passeggiata a piedi martedì a Piri, ma io non ho potuto appro f i t t a re della bella giornata, avendo preso una medicina che mi ha fatto un bene infinito[ . . . ]. Poiché mia moglie non cena più è tanto debole [ . . . ]. Non prende che un semolino nella sua camera, spesso a letto, quando le sue nausee sono particolarmente forti. Ieri sera ha rimesso, dopo però è riuscita a dormire bene. Questa mattina, invece, ha i suoi soliti disturbi[ . . . ]8. Due settimane dopo, con minuziosa precisione, il re proseguiva il «bollettino»: La mia cara moglie procede feli - cemente nella sua gravidanza con gli stessi disturbi, che non le hanno però impedito di fare lunedì una buona passeggiata a piedi a Santa Te resa e Guigioni9. L’attesa per quel parto che veniva a quasi un decennio di distanza dal precedente, quando il re aveva già compiuto cinquantatré anni e la regina trentanove, era dunque appassionata. Anche i sudditi sardi partecipavano con trepidazione all’evento. Nel palazzo ”viceregio”1 0 e nella piazza antistante, a un tiro di schioppo dalla cattedrale di San Giovanni, dove più volte Maria Teresa d’Asburgo aveva chiesto la grazia di un principino, era un via vai generale: domestiche, dignitari e dame di corte, tutti aspettavano la Notizia. Riferirà il maggiordomo Antonio Viseli: Trovandosi la regina Maria Te resa vicino al parto, io fui spedito a por- t a re invito a tutte le chiese della città di Cagliari perché esponessero il Santissimo Sacramento e dappertutto si pre g a s- s e11. La notte tra il 13 e il 14 novembre, dunque, mentre Maria Teresa fu colta dalle doglie, tutta un’isola era raccolta in orazione. Quanto ai Savoia, entravano e uscivano dalla camera della regale partoriente, in preda a un’incontenibile ansia. Con Vittorio Emanuele, c’era la primogenita Maria Beatrice1 2 , alle soglie del ventesimo compleanno, che, appena cinque mesi prima, aveva sposato un suo zio materno, l’arciduca di Modena Francesco IV, poi il fratello del re di Sardegna, Carlo Felice con la moglie Maria Cristina di Borbone, chiamata in famiglia «Mimì». Pure questi zii erano particolarmente interessati al nascituro: sposati da più di cinque anni e non più giovani, non avevano avuto figli, così la venuta di un principino sabaudo in grado di assicurare la continuità dinastica, avrebbe solle- vato anche loro da un pesante senso di frustrazione. Proprio Carlo Felice, che con la consorte fu tra i primi a prendere in braccio la «creatura», vergò sul suo diario, in un francese piuttosto approssimativo, un interessante resoconto dell’atmosfera familiare, in cui venne alla luce la futu- ra Ve n e r a b i l e : Maria Beatrice e io non facevamo altro che entrare e uscire dalla camera, perché eravamo così agitati che non eravamo di alcun aiuto. Le doglie arr i v a rono molto lentamente. Intorno alle 3, lei(Maria Teresa, n d r.) si mise sul lettino (allestito per il parto, n d r.)e le doglie si fecero più forti. Tra le 6 e le 7 si fece giorno e noi aprimmo le finestre delle altre stanze. Sorse un bellissimo sole [ . . . ]. Alle 8 e 50 minuti sentimmo A u d i b e rt(il medico che assisteva la regina Maria Te r e s a , n d r.) d i re che il bambino stava per arr i v a re. Ci precipitammo subito e lei mise felicemente al mondo una paffuta bambi - na, perfettamente bella e ben messa. La mortificazione fu generale!1 3 «Mortificazione», delusione, imbarazzo furono i primi sentimenti che la piccola principessa percepì intorno a sé, nei primi istanti della sua vita, quella mattina solatìa del 14 novembre 1812, mentre fuori dal palazzo, quasi beffardi, risuo- navano canti popolari, Te Deum, salve di cannone, cerimonie sacre e profane per festeggiare la neonata sabauda. Dell’amarezza di Maria Teresa resta una traccia in una lettera confidenziale che la regina di Sardegna indirizzò all’allora vescovo di Iglesias, Niccolò Navoni. Dopo averlo ringraziato per averla aiutata a riflettere sulla «consolazione di avere dato alla luce una bambina sana e forte che si conserva tale grazie a Dio», allude esplicitamente alla «ben giu- sta pena che provai per la mia famiglia e tutto il regno, per non aver avuto, come speravamo tutti, un figlio maschio». L’unico conforto di Maria Teresa? «[...] mi è stato di somma soddisfazione l’osservare il generale rincrescimento che il pubblico di ogni specie dimostrò per questa nuova privazione a cui si deve rassegnare la nostra infelice famiglia e che nessuno sentì più vivamente di mio cognato (Carlo Felice, n d r.), veramente desolato»1 4 . Forse fu proprio a causa degli orribili pensieri di quegli istanti che la regina Maria Teresa, per una sorta di c o m- pensazione, sviluppò con gli anni un attaccamento quasi morboso per la sua ultimogenita. Fu lei, la sovrana di Sardegna, a disporre che la piccola fosse condotta il giorno stesso della sua nascita al fonte 3 battesimale: per tre volte aveva visto morire un figlio in tenera età, perciò volle che l’acqua santa benedicesse subito la piccina, già nata sotto pessimi auspici: lontana da Torino per colpa di Napoleone e nel palpabile rammarico dei più che l’avrebbero desiderata maschio. La cerimonia si svolse a palazzo, nella sala contigua alla camera della partoriente, addobbata a mo’di cappella, e fu quanto mai intima e rapida. Carlo Felice e Mimì, con in braccio la bambina, fecero da padrino e madrina, mentre, da un lato, Vittorio Emanuele e Maria Beatrice assistevano al rito, officiato dal Decano Pietro Maria Sisternis de Oblites, Vicario Capitolare della Metropoli cagliaritana1 5 . La piccola si chiamò Maria Cristina, come la zia borbonica, Carla, come il fratellino defunto, Giuseppa, Gaetana - dal secondo appellativo del papà - ed Effisia. Quest’ultimo nome, assai tipico in Sardegna, fu scelto in segno di omaggio e gratitudine alla terra che aveva dato i natali alla principessa e accolto calorosa- mente i Savoia in uno dei loro periodi più tormentati. Con la sua tipica efficienza teutonica, comunque, la regina mise da parte l’intimo dispiacere e, ancora dolorante, poche ore dopo il parto, dal suo letto impartiva già istruzioni per la cura di Cristina. Chiamò al suo capezzale la giovane sarda Rosa Borsarelli, di buon cuore, dai modi franchi ma ossequiosi, e la nominò guardarobiera e cameriera personale della principessina. Come balia scelse, invece, una cognata di Rosa, la robusta Speranza Muro, che aveva appena avuto il suo primo bambino1 6 . Una settimana dopo, Maria Teresa stessa, ripresasi dal parto, portò la figlioletta al Santuario intitolato a Nostra Signora della Mercede, nella marina vicino Cagliari, in una località detta «Bonaria», per «consacrarla» alla Madonna. La sovrana fu vista inginocchiarsi col capo coperto da un velo davanti alla miracolosa immagine della Ve rgine venerata in quella chiesa, e tendere verso l’altare la piccola che teneva in braccio. Cento volte Maria Teresa racconterà a Maria Cristina di come avesse invocato su di lei la speciale protezione della Mamma celeste. Fu per questo che la futura regina di Napoli nutrì sempre una particolare venerazione per la Madonna. Quel giorno, la sovrana di Sardegna volle lasciare al Santuario di Bonaria un obolo d’eccezione: due corone d’oro. U n ’ o fferta di non poco conto visto che la dinastia sabauda, a Cagliari, non viveva certo nel lusso. Quando, il 3 marzo 1799, Carlo Emanuele IV1 7 di Savoia, fratello maggiore di Vittorio Emanuele I, scacciato da Torino dai giacobini la sera del 9 dicembre 1798, era arrivato a Cagliari, era stata la prima volta che un re di Sardegna aveva messo piede sull’isola. Un re che aveva lasciato in Piemonte tutti i suoi beni e che, in compenso, portava con sé una muta di parenti e cortigiani: la moglie Maria Clotilde, più dieci principi e principesse, ognuno, ovviamente, con il suo nutrito seguito1 8 . Tra il 1794 e il 1795 un’aspra rivolta aveva scosso tutta la Sardegna, che indispettita dalla politica del viceré Balbiano, aveva preteso l’espulsione di tutti i funzionari piemontesi. Eppure, quando la fregata toscana «Rondinella» con- dusse il drappello sabaudo al porto di Cagliari, una folla festosa gli dedicò accoglienze trionfali. Pescatori e marinai por- tarono addirittura a braccia i cocchi reali, da piazza della Dogana al palazzo Viceregio. I cagliaritani videro in Carlo Emanuele IVil re che veniva a stabilirsi tra i suoi sudditi e che, quindi, avrebbe risolto i loro mali. Così, l’aristocrazia sarda riarredò con le più belle suppellettili il modesto palazzo viceregio di Cagliari, dove si sta- bilì il sovrano e offrì i suoi palazzi ai principi e all’e n t o u r a g ereale, mentre il Parlamento formato dai tre «Statementi» - militare, ecclesiastico e reale - votò subito una sottoscrizione per raccogliere seicentomila lire di appannaggio in favore della famiglia reale1 9 . In attesa di rastrellare il danaro, i nobili dell’isola avevano provveduto personalmente alle spese della c o r t e . Le cose, però, andarono in maniera molto diversa da come avevano sperato i cagliaritani. Carlo Emanuele IV, debole e malato, non poteva certo ergersi a deus ex machina. La sua religiosissima e corpulenta consorte, Maria Clotilde, invece, era guardata con sospetto dai cognati, i quali contestavano l’eccessiva influenza del suo confessore sardo, padre Giovanni Battista Senes, e del medico di corte. Quei due, dicevano Vittorio Emanuele e Carlo Felice, «dominavano» il re. Quanto alla mamma di Maria Cristina, Maria Teresa, aveva avuto un pessimo impatto con la Sardegna: nei suoi primi scrit- ti da Cagliari parla con alterigia di «terre incolte», «abitanti rozzi e oziosi», «paesani vestiti con pelli naturali»2 0 . D’altra parte la permanenza in Sardegna di Carlo Emanuele IVdurò appena sei mesi: entrate le truppe russe in Torino il 26 maggio 1799, lo zar richiamò i Savoia in continente per restaurare il loro dominio in Piemonte. Il 22 settem- bre di quello stesso anno re e regina sbarcarono a Livorno. Vittorio Emanuele, allora duca d’Aosta, che avrebbe dovuto essere il primo a partire, se n’era andato da Porto Torres solo una settimana prima, trattenuto con la moglie a Cagliari dalla morte del piccolo Carlo Emanuele. Maria Teresa e il marito lasciarono in Sardegna la figlia Maria Beatrice, che aveva sette anni. Altre disgrazie familiari e politiche funestarono la Casa sabauda in quel concitato periodo ed è fondamentale accen- narne per comprendere il clima mistico e fatalista che avrebbe segnato l’infanzia di Maria Cristina. Sempre nel 1799 era morto, trentasettenne il duca di Monferrato, e suo fratello, il giovane conte di Moriana, chia- mato a sostituirlo al governo di Sassari, scomparve tre anni dopo2 1 . L’assolutista Carlo Felice, rimasto come viceré a Cagliari, si trovò a fronteggiare continue congiure e cospirazioni, visto che, dopo la partenza del sovrano, era tornato a divampare il malcontento popolare. Intanto, il duca Vittorio Emanuele, mandato in avanscoperta in Piemonte per trattare 4 la riconsegna del regno si era dovuto arrestare a Vercelli: gli austriaci facevano pressione sugli alleati russi per ricevere come compenso ”italiano” i domini dei Savoia. Maria Teresa, incinta per la quarta volta, rientrata a Cagliari mise al mondo una bambina il 20 dicembre 1800 e la perse ventuno giorni dopo. Una presenza terrena così breve che di questa principessina, negli alberi genealogici, non risulta neppure il nome. Le speranze di restaurazione sabauda in Piemonte, intanto, erano state del tutto annientate dalla battaglia di Marengo che ribaltò la situazione, riportando Torino nelle mani dei francesi. L’avanzata delle truppe napoleoniche spinse quindi Carlo Emanuele IVa lasciare il Poggio Imperiale, a Firenze, dove nel frattempo si era stabilito, per Roma. E qui lo raggiunsero Vittorio Emanuele e Maria Te r e s a . Solo la generosità dei principi Colonna e l’intima amicizia con il pontefice Pio VII, permisero al c l a ndei Savoia di condurre una vita dignitosa: la Santa Alleanza, di fatto, non versò a Carlo Emanuele IVe famiglia neppure un centesi- mo. ARoma, il 13 maggio 1801, chiuse gli occhi per sempre la zia Madama Felicita2 2 , che tanto si era adoperata per man- tenere la pace tra i suoi. Di lì a poco il re e i parenti si trasferirono a Napoli, dove in due giorni subirono altri due pesanti lutti: il 7 marzo 1802 morì la regina Maria Clotilde, che, sei anni dopo, su diretta sollecitazione di papa Pio VII, venne dichiarata Ve n e r a b i l e dalla Congregazione dei Riti, il 9 marzo, invece, la duchessa Maria Teresa, perse la terzogenita Maria Adelaide, che non aveva compiuto neppure gli otto anni2 3 . Fu il settimo decesso nella famiglia reale in un triennio: una catena di disgrazie dav- vero impressionante. Prostrato dalla scomparsa della moglie cui era legatissimo, Carlo Emanuele IV, in una sala di palazzo Colonna, il 4 giugno di quello stesso anno, abdicò in favore del fratello Vittorio Emanuele I2 4 . Il sovrano uscente si ritirò in Sant’Andrea al Quirinale, come novizio dei Gesuiti. Quello nuovo, però, sembrava ancora più in penitenza. Cinse, infat- ti, la corona in una situazione di profonda amarezza: con il Piemonte ancora in mani nemiche, senza il becco di un quat- trino e sotto s h o c kper aver perso mezza famiglia. Anche questo è un particolare che influenzerà Maria Cristina, la quale vedrà sempre le responsabilità del trono come una fonte di sofferenze, piuttosto che di agio. Da Napoli Vittorio Emanuele e Maria Teresa mossero per Roma. Lo zar Alessandro fece chiedere al neo-re di Sardegna un prospetto delle necessità economiche della sua corte. Il sovrano calcolò un totale di settecentottantacinque- mila lire all’anno. L’imperatore russo bussò a tutte le corti amiche, ma senza rastrellare un bel niente. Nel 1805 serie minacce di attentati spinsero Vittorio Emanuele e Maria Teresa, dopo aver chiesto invano ospita- lità in Austria, ad andarsene a Gaeta. Ma anche qui, con l’avanzata dei francesi, la situazione si fece esplosiva. Perciò, dopo aver rifiutato Malta e Corfù, offerte loro rispettivamente da Inghilterra e Russia, il re di Sardegna e la moglie, cui, nel 1803, erano nate due gemelle, Maria Teresa, detta «Teta» e Marianna2 5 , «Nanna», il 18 febbraio 1806 rientrarono a Cagliari, a bordo della nave russa «Santa Prascovia». Dopo aver visitato Sassari e altri centri dell’isola, Vittorio Emanuele I stabilì la sua residenza nella capitale, dove il fratello viceré, Carlo Felice, gli cedette la cura dello Stato. Fu allora che il sovrano cominciò a prendere sul serio quel suo dominio povero e segnato dall’arretratezza. Ma lui che, nel 1796, era stato l’unico ad opporsi alla resa mentre Napoleone marciava su Torino, continuava sempre a pensare al modo in cui riprendersi il Piemonte e farla pagare all’«usurpatore». Un rapporto contraddittorio legò Vittorio Emanuele all’isola: pur disprezzandola intimamente, finì per prenderla a cuore, per gratitudine e per forza maggiore. «Questo», vergò il re il 5 giugno 1807 in una lettera a Carlo Felice, a Palermo per le sue nozze, «sarà sempre per noi il Paese più inaccessibile agli stranieri [...]. Si è molto affezionato a noi e, perciò, dobbiamo ricambiare e fare il pos- sibile per migliorarlo, prestandosi la natura che ha dato del suo meglio e anche il talento degli abitanti, che mancano solo di buone maniere, ma si può trasmetterle loro poco a poco. Adire il vero, provo un po’v e rgogna per la differenza che vostra moglie noterà tra le magnificenze del Palazzo di Palermo e l’angustia degli alloggi qui. Ma lei a quest’ora sarà stata già informata da voi della nostra situazione e spero che il buon Dio ci ridarà ciò che abbiamo perduto [...]»2 6 . Lo sfarzo, per il monarca esule, era coessenziale alla monarchia. Scrisse ancora al fratello: «Sono pronto a tutto sopportare personalmente, ma la mia povertà esteriore è talmente visibile, che ho dichiarato di non voler ricevere nes- sun omaggio e di non voler tenere Corte, ma di continuare a chiamarmi marchese di Rivoli, perché un re che non ha l’e- steriorità della pompa regale fa ridere e sembra un don Chisciotte»2 7 . Pure le borse di parenti e amici si chiudevano per quel sovrano errabondo: i duchi del Chiablese, per esempio, non sperando più in una restituzione del Piemonte, pretesero da Vittorio Emanuele la liquidazione di tutti i loro averi e diritti, in modo da poter disporre del ricavato ovunque si fossero trovati. «Sono carico di gente», si sfogò il re con Carlo Felice, «più di quanta ne aveva mio fratello (Carlo Emanuele, n d r.). Egli mi ha addossato quasi tutti i suoi e debbo dar loro sedicimila lire al mese ed ottomila ai Chiablese. Egli si è tenuto per scorta molta argenteria; deve avere con sé ventotto candelieri, sedici zuppiere, tutta la batteria di cucina, vasellame, insomma otto casse di argenteria e io non ho un cande- 5 liere, né batteria di cucina, ed appena ho qualche piatto che possedevo già. Egli mi ha tuttavia mandato una toeletta, non avendone più mia moglie per averle vendute in Piemonte, e dei merletti [...]. Egli si è tenuto anche metà dei sussidi arre- trati di Inghilterra [...] tra due mesi saranno finiti, così io e la mia Corte vivremo come il camaleonte, di aria, se non arri- verà qualcosa»2 8 . Casa Savoia era giunta a una tale mancanza di credito che non si trovava neppure chi facesse ipoteche sull’isola di Sardegna. Eppure il re non demordeva. Continuava a credere come a una fede nel ritorno a Torino e alla g r a n d e u rp e r- duta. Così rifiutò sdegnosamente la proposta di Bonaparte, disposto a creare per lui un nuovo Stato, offrendo Siena, Grosseto e forse anche il principato di Lucca, a condizione però che Vittorio Emanuele rinunciasse alla Savoia e al P i e m o n t e . Con la stessa ostinazione rifiutò di riconoscere Napoleone imperatore, anche quando questo gesto gli fu suggeri- to come «opportuno» dalla Russia: non voleva che ciò fosse interpretato come una rinuncia ai domini aviti. Di certo, dei tre figli di Vittorio Amedeo III, destinati ad avvicendarsi sul trono sabaudo, il più capace si rivelò Vittorio Emanuele. Dal genitore aveva ereditato la passione per la strategia militare e anche l’intimo attaccamento ai valori più tradizionali della Corona. Quest’ultimo si rivelerà, però il suo più grosso limite: non intuì che l’assolutismo non era al passo coi tempi. Vittorio Emanuele riordinò il governo della Sardegna, suddividendola in quindici province, fondò un «monte di riscatto» per l’ammortamento del debito pubblico, organizzò dal nulla un esercito e una piccola flottiglia di galere, pro- mosse la coltivazione degli ulivi e sperimentò, con scarsi risultati quella del cotone, infine tentò di imprimere una sorta di impulso industriale, facendo aprire una cartiera e diverse manifatture di lana. La situazione finanziaria dei Savoia e dei loro sudditi, comunque, non migliorava. Anzi nell’anno che precedette la nascita di Maria Cristina, era divampata una gran carestia e migliaia di poveri si erano spostati dalla campagna a Cagliari, con il miraggio di un qualche guadagno. Tutta l’isola era flagellata dalle malattie infettive, dalla miseria e dalle incursioni dei pirati che scorrazzavano lungo le coste razziando, appiccando il fuoco e sequestrando come schiavi gli abi- tanti dei paesi litoranei che opponevano resistenza. Fece scalpore la battaglia navale del 28 luglio 1811 a largo del capo Malfatano, tra due «legni barbareschi» e tre navi della marina sabauda, le due mezze galere «Falco» e «Aquila» e il lan- cione «Effisio» che, guidate da Vittorio Porcile, riportarono un glorioso successo2 9 . Quotidianamente la piazza Palazzo era affollata da nullatenenti che attendevano il passaggio dei reali per un’ele- mosina, magra, ma sicura. I cordoni della borsa erano stati stretti per tutti alla reggia, dove si conduceva una vita assai modesta. In Casa Savoia, però, la carità rimaneva sempre un obbligo per educazione e abitudine. Intanto era considerata un altro degli indispensabili corollari della regalità e poi c’era l’inconscia speranza, tipica in chi si sente in disgrazia, che aiutando la gente più sfortunata si riceva a propria volta un aiuto dall’alto. Tante sofferenze e contrarietà, unite al fatto che i precedenti sovrani Carlo Emanuele IVe Maria Clotilde si erano consacrati interamente alla fede, avevano fatto volgere ancora di più al misticismo la famiglia reale. Vittorio Emanuele I e Maria Teresa ebbero nel fervore cattolico e nell’odio contro Napoleone, i loro maggiori punti di contatto. In qualche modo, poi, il re e la regina da una parte, e i sudditi dall’altra si influenzarono a vicenda, come per un gioco di specchi: dopotutto anche gli isolani erano abituati da secoli a chiedere alla Divina Provvidenza i rimedi alle tante asperità della loro terra. Così, quel regale battersi il petto galvanizzò ancor più la religiosità e il profondo senso del desti- no, tipici del popolo sardo. Insomma, tutto l’ambiente creatosi intorno alla famiglia sabauda induceva inevitabilmente al fervore religioso e al rigore dei costumi. Il tenore di vita che scandì fin dall’inizio l’infanzia di Maria Cristina non fu certo il più consono al suo lignaggio. Anzi la sua nascita, coincise con un tentativo di rivoluzione, che costò la vita a tre infelici, Sorgia, Putzola e Carreddu, ghigliottinati in piazza, e ad altri il lavoro forzato ai remi delle galere di Stato3 0 . Eppure, il re per festeggiare l’ultimogenita fece in modo che il municipio cagliaritano elargisse in beneficenza mille scudi, come già aveva fatto cinque mesi prima per le nozze della principessa Maria Beatrice: qualunque cosa acca- desse andavano rispettate le tradizioni regie, così pure l’etichetta e il cerimoniale, rimasti rigorosamente ancorati ai detta- mi settecenteschi. Vittorio Emanuele e Maria Teresa esorcizzavano le paure per il futuro ancorandosi a quei piccoli riti dell’a n c i e n r é g i m eai quali entrambi erano stati forgiati. Ogni mattina la regina usciva dal Palazzo, scortata da una dama di compa- gnia, da un cavaliere d’Onore che le sorreggeva il braccio e da un più giovane scudiero. La sovrana raggiungeva la car- rozza e un valletto, lentamente, le apriva la portiera. Le uniformi dalle ricche decorazioni, le parrucche incipriate, gli inchi- ni e i baciamani: tutto era una rievocazione vivente dell’epoca aurea del XVIII secolo. L’atmosfera in cui viveva la famiglia reale nel 1812 fu raccontata da un testimone privilegiato: Francesco d’Austria Este, lo zio-marito di Maria Beatrice, che alla fine di quello stesso anno diede alle stampe una corposa Descrizione della Sard e g n a. Il principe, oltre che per contrarre matrimonio, si era trasferito nell’isola per studiare la pos- sibilità di un intervento nei Balcani contro i francesi. Un progetto che interessava parecchio Vittorio Emanuele. Nel suo «reportage», però, l’arciduca non si limita alle osservazioni strategico-militari. Ricostruisce, con la pre- 6 cisione di un documentarista, la cadenza delle giornate dei Savoia3 1 . Sappiamo, perciò, quasi ora per ora, come Vittorio Emanuele e i suoi vivessero nel palazzo viceregio,assai stre t - to e mal adornato, senza cantina, né cortile o scuderie per carrozze e cavalli(questi ultimi locali erano stati ricavati in un edificio contiguo, n d r.), dotato di una piccola e cattiva cucina. Il re occupava l’appartamento più ampio che comprendeva una sala d’udienza, in cui c’era il trono, dove si tene- vano pure i balli - compreso quello che festeggiò la nascita di Maria Cristina - e dove i Savoia amavano pranzare nel periodo estivo. Nanna, Teta e Cristina, cui le piccole gemelle dettero il nomignolo di «Tintina», abitavano tre stanzucce nella mansarda. Vittorio Emanuele, di indole assai pignola, disciplinava ogni sua azione a un rigido calendario, con l’orologio sempre a portata di mano. Il re si alzava sempre alle sette in punto. Faceva colazione a base di latte caldo, macchiato con c a ffè e scagliette di cioccolato. Un’ora dopo, ogni mattina, spesso con Maria Teresa, andava a messa nella cattedrale di San Giovanni. Al seguito del sovrano, comunque, c’era sempre il suo primo scudiero: il conte Gioacchino Maria Cordero di R o b u r e n t . Di ritorno dal duomo, Vittorio Emanuele si intratteneva con la regina e poi saliva nella mansarda a salutare le sue bambine. Infine si ritirava nel suo «studio»: due stanze a cui nessuno poteva accedere. Il colloquio quotidiano del re con Gioacchino Alessandro Rossi, capo della Segreteria di Stato facente funzione di primo ministro, avveniva invece in un’al- tra saletta, con un balcone da cui si poteva assistere al cambio della guardia, fissato per le dieci. Le principessine si diver- tivano a sbirciare da una finestrella il padre che si affacciava mentre i tamburi rullavano fragorosamente e si alzavas e m- pre lo stesso grido in sardo: «Bivat su Rei!», «Viva il re!». L’austero, malinconico Vittorio replicava con un timido sorri- so, al massimo con un cenno della mano, poi si ritirava. Era, infatti, l’ora del re n d e z - v o u s con il capo supremo militare, il marchese Giacomo Pes di Vi l l a m a r i n a . L’incontro si concludeva sempre con la scelta della nuova parola d’ordine per la giornata seguente. Tutte le mattine rispet- tavano questa stessa cadenza. L’unica variante potevano essere i funzionari che venivano a conferire con il monarca: ora quello del fisco, ora quello della giustizia, e così via. In base al resoconto del genero, poi, Vittorio riceveva, prima del pran- zo, chiunque avesse da inoltrargli suppliche, domande, postulazioni. L’importante era che avesse rispettato il cerimoniale chiedendo l’udienza al gentiluomo di camera, il quale teneva un apposito elenco. Alle dodici e trenta Vittorio Emanuele rivedeva la moglie e le bambine: era l’ora dei giochi e delle chiacchiere in famiglia. All’una e un quarto precise si sedevano tutti a tavola, dove era permesso aggiungersi anche al conte di Roburent e a due dame di corte. Una di queste era sempre la religiosissima marchesa Caterina Ressan di San Giorgio, che Maria Teresa scelse fin dalla nascita di Tintina perché supervedesse alla sua educazione e a tutte le necessità quotidiane. La nobil- donna fu per la principessina una vera e propria «vicemamma» che sopperiva alle assenze della regina, assorbita da mille i m p e g n i . Testimoniò donna Elisabetta Ciravegna stiratrice in Casa Savoia: «Ho conosciuto Maria Cristina, in Cagliari men- tre essa era ancora bambina, l’ho veduta più volte portata in braccio dalla sua balia in compagnia della Marchesa di San G i o rgio. Io ho poi sentito sempre parlar bene di questa principessa [...]»3 2 . Maria Teresa e il suo e n t o u r a g epiù stretto, di cui facevano parte anche le marchese Angelica Solaro di Saint Peire e Caterina Saint-Just di Villamarina, facevano a gara nel tessere le lodi della regale neonata che piangeva raramente e col- piva già per la sua aria serafica. Un’altra importante presenza familiare per Maria Cristina fu padre Giovanni Battista Terzi, dei conti di Castelpizzuto, che, per volere di Maria Teresa, benedisse la culla in cui riposava la nuova principessa. Originario del Molise, il religioso che apparteneva agli ordini degli Olivetani, era lettore di matematica e professore di astronomia. La regina l’aveva incontrato a Gaeta e da allora lo elesse a precettore di tutte le figlie, nonché guida spirituale dell’intera fami- glia. Padre Terzi seguirà Cristina dappertutto, fino al suo ultimo istante di vita3 3 . Grazie alle memorie di Francesco IVd ’ A s b u rgo, possiamo perfino ricostruire l’alimentazione tipo dei Savoia nel periodo sardo. Nei freschi magazzini interrati del palazzo viceregio si conservava in gran quantità carne di vitello, dono dei villaggi sparsi intorno Cagliari. Vittorio Emanuele e Maria Teresa ricevevano poi, ogni giorno, i maccheroni freschi, impastati con la farina macinata dagli asinelli alla mola. Rifiutavano, invece, con un certo disgusto, i porchetti. Man mano che Cristina cresceva arrivarono per lei a palazzo burro e latte dalla Tanca Regia di Abbasanta. Poi, per le sue pappe, cari- chi di «legumi verdi»: spinaci, verze, fagiolini e piselli. Tutti ortaggi, prima quasi sconosciuti nell’isola, la cui coltivazio- ne aveva subito un grande impulso per volere di re Vi t t o r i o . Nel pomeriggio il sovrano era più libero di organizzare le sue occupazioni. Avolte si tratteneva piacevolmente con i familiari, altre se ne stava al suo scrittoio a curare la corrispondenza, altre ancora andava a cavallo. Quest’ultimo passatempo, però, era escluso di domenica e nei giorni di gala, quando il re passeggiava a piedi: sempre per meno di un’ora e prima del tramonto. La cena alle 21 e la «ritirata» nelle rispettive stanze concludevano, di solito, la giornata dei 7 sovrani. Ameno che non fossero in programma serate al teatro. In questo caso Vittorio, la consorte e le tre figlie maggio- ri, assistevano soltanto al secondo atto dell’opera. La domenica tutta la famiglia al completo partecipava alla messa di mez- zogiorno a San Giovanni. Era un’occasione per incontrare i rappresentanti degli stati stranieri e tutte le alte autorità che partecipavano al rito. L’etichetta rigida fu già introdotta a Cagliari da Carlo Emanuele IV, come conferma il diario del magistrato alghe- rese Giovanni Lavagna3 4 , ma Carlo Felice, nel periodo in cui era stato viceré, l’aveva resa ancora più severa e antiquata. Maria Teresa, divenuta regina, accentuò a sua volta gli aspetti assolutistici del cerimoniale3 5 . Per quanto accomunati da una forma di religiosità vicina al fanatismo e uniti da una buona intesa familiare, Vittorio Emanuele e Maria Teresa, avevano comunque una personalità assai diversa. Tanto era mite e schivo il primo, quanto la consorte era autoritaria e onnipresente. Perfino gli storici più apologetici ammettono questa discrepanza di c a r a t t e r i . Scrisse in proposito nel 1895 monsignor Vincenzo Sardi, biografo di Maria Cristina: «Imperocché era il Monarca, come prode nelle armi e di ottimo cuore, così di buona fede e condiscendente; la Regina per contrario di tempra vivace, di volontà decisa e fatta per dominare [...]»3 6 . Bella, slanciata, fiera nel portamento, la sovrana vestiva abiti accollatissimi e ostentava moralismo e regalità in ogni più piccolo gesto: era impossibile che passasse inosservata. L’isola le assicurava un appannaggio, detto «spillatico», di venticinquemila scudi. La sovvenzione era stata decisa dagli Statementi «quale pegno dell’attaccamento del popolo sardo nei suoi confronti». Ma per quanto Maria Teresa amasse il protocollo o ne invocasse il rispetto alla lettera in modo da scongiurare il sovvertimento del vecchio ordine, a volte lei stessa ne avvertiva il peso. Specialmente perché il ruolo dinastico e la parte- cipazione agli affari di Stato, la tenevano lontana dall’occupazione preferita: la cura dei figli. Giustamente gli storici ne hanno messo in luce la forte personalità e l’ingerenza nelle questioni politiche. Va, però, chiarito che Maria Teresa non agì per smanie di protagonismo, quanto piuttosto per un rigido, teutonico senso del dovere. Pochi erano gli svaghi che poteva concedersi. Fra questi i concerti accademici che organizzava a palazzo, durante i quali si esibiva al pianoforte, accompagnata da strumenti ad arco. Oppure le passeggiate lungo lo stradone di Bonaria, scortata da uno dei primi scudieri, come don Francesco Di Laconi Aymerich e da un cavaliere, spesso il cagliaritano Francesco Maria Benedetto Amat di San Filippo. Nanna, Teta e Tintina erano felicissime quando la famiglia reale lasciava la città per una qualche gita all’interno dell’isola. Maria Teresa limitava al minimo possibile gli spostamenti in nave: aveva un folle terrore del mal di mare. A l t r o raro svago per le principessine erano le visite degli zii Carlo Felice e Mimì. Risulta, fra l’altro, da una lettera di Vittorio Emanuele al fratello, datata 15 marzo 1814. Dopo aver chiesto a Carlo Felice di rimandare la sua venuta di qualche giorno, il tempo necessario per ristabilirsi da una brutta influenza, conclude: Le gemelle che sono fuori di loro per il piacere di questa novità, riguardano a tutte le ore il mio baro m e t ro. E questa sera avranno la consolazione di vedere che è salito di una sola linea [ . . . ]3 7 . Intanto la disastrosa campagna di Russia lasciava presagire il tramonto dell’astro napoleonico. Il 6 aprile di quello stesso anno Napoleone abdicò a Fontainebleau: il trono di Francia tre giorni prima era stato già offerto dal Corpo legislativo a Luigi XVIII. Vittorio Emanuele, detto «tenacissimo» per la sua condotta antibonapartista a oltranza, si sentì ripagato di ogni umiliazione e decise di far rientro a Torino, indipendentemente dai voleri degli austriaci che avevano occupato la città. L’impazienza per questo suo rientro traspare da una lettera del 25 aprile a Carlo Felice:Penso che sia meglio che voi restiate ancora qui. Poi io penso, entro l’anno di venire a ripre n d e re mia moglie e le mie figlie [ . . . ]3 8 . Il re si imbarcò per Genova a bordo del vascello Boyne il 2 maggio 1814 e, diciotto giorni dopo, rimetteva final- mente piede a Torino, accolto dalle entusiastiche manifestazioni popolari, immortalate da un celebre disegno del B o u c h e r o n3 9 . L’odio che si era accumulato in dodici anni contro l’arrogante dominazione francese rendeva doppiamente gradito il ritorno dell’antica famiglia regnante. Prima di lasciare Cagliari, dopo otto anni di permanenza forzata, Vi t t o r i o Emanuele, quale pubblico segno di considerazione, nominò la moglie Maria Teresa reggente di Sardegna. Nonostante la gioia per il ritorno alla terra dei padri, il re soffriva parecchio a causa della lontananza dalla fami- glia. Non c’è lettera al fratello, in cui tra un’indicazione politica e un’altra di etichetta, non rivolga un pensiero alle sue c a re donne. Il 15 luglio, a poco più di due mesi dal distacco, scrive: Beatrice mi lascia sperare che verrà a trovarmi tra b reve, sarebbe una grande consolazione nella mia separazione da tutta la mia famiglia, che effettivamente mi trovo soli - tario, in un così solenne palazzo(il Palazzo Reale di Torino, n d r.), e ciò che mi dispiace è soprattutto che si rinvia sem- p re la pace generale[ . . . ]4 0 . AMaria Teresa essere reggente dell’isola importava poco: aspettava con ansia il momento di rientrare anche lei in Piemonte, nell’antica reggia progettata dal Castellamonte, tra quello sfarzo e quelle comodità che aveva rimpianto per troppi anni. Tuttavia assolse ai suoi compiti con il rigore di sempre, mentre alla sua Tintina, terminato il baliatico di Speranza 8 Muro, badava una nutrice, Barbara Mameli, sempre cagliaritana. Tra lei e la principessina nascerà un tenero e solido lega- me destinato a durare nel tempo. Il 26 febbraio 1815 Napoleone fuggì dall’isola d’Elba ed ebbero inizio i cosiddetti «Cento giorni», in cui sembrò che il suo impero potesse rinascere. L’esercito piemontese, rapidamente riorganizzato da Vittorio Emanuele I, potè distin- guersi al fianco degli Austriaci, nei dintorni di Grenoble. Così, il congresso di Vienna, conclusosi con il trattato del 9 giu- gno, nello stabilire il nuovo assetto dell’Italia, premiò il re sabaudo che potè annettersi Genova, come già avevano stabilito in un’intesa di un decennio addietro Inghilterra e Russia. Il Regno di Sardegna, comprendente Piemonte, Savoia, Nizza, Liguria e Sardegna, con i suoi 3.814.000 abitanti diventa uno degli stati italici più potenti, insieme con il Lombardo-Ve n e t o e con il Regno delle Due Sicilie. Il 18 giugno Napoleone fu definitivamente sconfitto a Waterloo. Quattro giorni dopo, costretto ad abdicare per la seconda volta, fu rispedito nuovamente in esilio all’Elba. Maria Teresa, che aveva temuto il peggio, poteva finalmente met- tersi in viaggio e coronare il suo sogno. Il 16 agosto la regina, le tre figlie e un nutrito seguito salparono da Cagliari a bordo della nave inglese «Bombay», diretti a Genova. Questa volta la sovrana dimenticò del tutto il mal di mare. In Sardegna rimase come viceré Carlo Felice che, di lì a poco, per la sua inflessibilità venne ribattezzato dagli isolani «Carlo Feroce»41. Aquest’ultimo Vittorio Emanuele, in una lettera datata Genova, 23 agosto 1815 racconta la gioia che provò riab- bracciando Maria Teresa, Nanna, Teta e Tintina. Volle andare loro incontro a bordo di un battello verso Portofino, navi- gando insieme con Francesco e Beatrice per quattro ore prima di poter salire sulla «Bombay»: Vo i p o t rete immaginare la mia consolazione [ . . . ]. Ho trovato mia moglie ingrassata e nel migliore stato, le gemelle sono cresciute e dimagrite, ma ben educate, Cristina ha fatto tanti pro g ressi ed è tanto amabile. Non riesco a e s p r i m e re la mia gioia[ . . . ]. Le piccole erano colpite dalla magnificenza della città. Abbiamo pranzato tutti insieme a b o rdo e siamo sbarcati alle 6. C’erano molto meno vascelli di guerra che al mio arrivo e meno soldati, ma tante perso- ne e una buona accoglienza e inoltre delle espressioni di acclamazione davvero sincere. La nobiltà si è radunata alla scala in gran numero[ . . . ]4 2 . Fu questa la prima volta che Maria Cristina di Savoia mise piede nel «continente», a Genova, la città che le rima- se sempre nel cuore. Aveva appena due anni e nove mesi. Dopo un breve soggiorno a Genova, Maria Teresa e le tre bam- bine, andarono a Modena, ospiti di Maria Beatrice e del marito, per prepararsi alla solenne re n t r é ea Torino, la culla della d i n a s t i a . ...il racconto continua in «La reginella santa» di Luciano Regolo pp.504, con illustrazioni, L.40.000 Simonelli Editore Il volume si può tro v a re in tutte le migliori libre r i e anche possibile riceverlo a casa ordinandolo contrassegno con una semplice e-mail a: e d @ s i m o n e l . c o m o p p u re scrivendo a: Simonelli Editore srl - Via G. Verdi, 5 - 20121 Milano