VARIE, 5 ottobre 2009
GASDOTTI PER VOCEARANCIO. ”I
gasdotti sono l’equivalente odierno delle vie delle spezie nel medioevo: estese rotte di collegamento internazionali che portano in Europa, da terre strane e lontane, i prodotti essenziali per la vita civilizzata” (Ed Crooks,firma del Financial Times).
L’Europa ha urgente bisogno di gas naturale. La situazione, oggi, è questa: il Vecchio continente consuma un po’ meno di 600 miliardi di metri cubi di metano ogni anno (558 nel 2008) e ne produce un po’ più di 300 miliardi (308, precisamente). Quindi i 27 stati membri dell’Unione europea importano, in media, 250 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Lo comprano soprattutto dalla Russia (150 miliardi di metri cubi) e dall’Algeria (altri 60 miliardi).
Nei prossimi anni le cose peggioreranno. I giacimenti di gas europei si stanno esaurendo. In dieci anni, secondo le previsioni dell’Associazione internazionale dell’energia, la produzione ”domestica” annua di gas in Europa si ridurrà di un centinaio di miliardi di metri cubi, mentre la domanda crescerà fino a raggiungere i 720 miliardi. L’Europa, che oggi copre con le importazioni circa il 45% del suo fabbisogno, dovrà importare nel 2020 il 65% del gas naturale che utilizza.
In questo contesto l’Italia sta anche peggio degli altri. Produciamo ogni anno 10 miliardi (scarsi) di metri cubi di gas, ne consumiamo più di 80. Dobbiamo importare, cioè, circa 75 miliardi di metri cubi di metano. Il ”grosso” lo compriamo dalla Russia e dall’Algeria (24,5 miliardi di metri cubi ognuna), altri 10 miliardi di metri cubi arrivano dalla Libia, 8,7 dall’Olanda, 6 dalla Norvegia. Germania e Regno Unito ci danno altri 2 miliardi di metri cubi.
In Italia il gas viene impiegato per usi industriali (circa 20 miliardi di metri cubi), per generare elettricità (33,5 miliardi), per il riscaldamento e i trasporti (29,8 miliardi)
Ci sono due modi di trasportare metano in un Paese. Il primo consiste nel portarlo allo stato liquido, trasportarlo in grandi navi e scaricarlo in un rigassificatore, un impianto che riporta il combustibile allo stato gassoso e lo mette nella rete. L’altra soluzione è costruire i gasdotti, lunghissime condotte sotterranee che iniziano nel Paese che esporta il gas e finiscono in quello che lo importa.
Alcuni Paesi hanno scelto di costruire i rigassificatori. Lo ha fatto, per forza, il Giappone, che oggi conta 23 impianti di rigassificazione. In Europa la Spagna ne ha 6, la Francia e il Regno Unito e l’Italia ne hanno 2, Grecia, Belgio e Portogallo 1. Costruito negli anni Settanta dalla Esso e oggi gestito da Gnl Italia, una società di Snam Rete Gas, il primo rigassificatore italiano è a Panigaglia (nel golfo di La Spezia). L’altro è nuovissimo: è quello di Rovigo, inaugurato nel 2008. Entro il 2015 il nostro Paese dovrebbe però completare la realizzazione di altri tre impianti: Livorno, Porto Empedocle (Agrigento) e Trieste.
Storicamente, comunque, Roma, e l’Eni, il colosso dell’energia di Stato (oggi il Tesoro ne controlla il 30%), hanno scelto i gasdotti. Come il Tag, 1.140 chilometri di condotte che portano dalla Russia in Italia, attraverso Ucraina, Slovacchia e Austria, 37 miliardi di metri cubi all’anno o il Tptc e il Trasmed, che portano in Sicilia, via Tunisia e Canale d’Otranto, oltre 33 miliardi di gas naturale algerino. Poi ci sono il più vecchio Tenp, 1000 chilometri che attraversano Germania e Svizzera per portare in Italia gas olandese, e il Greenstream, l’ultimo nato, 520 chilometri di condotte che trasportano il gas dalla Libia in Sicilia, a Gela.
Servirà più gas, e quindi occorreranno più gasdotti. In Europa sono diversi i progetti in corso, e molti riguardano l’Italia: la condotta Galsi – 900 chilometri di tubi dall’Algeria alla Sardegna, 8 miliardi di metri cubi annui’, l’Igi – 800 chilometri, dal Mar Caspio a Otranto passando per la Turchia, e altri 8 miliardi di metri cubi di metano – o il Transadriatico, che parte dal’Albania.
Il primo produttore mondiale di metano è la Russia, con oltre 600 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Il gas russo oggi arriva in Europa passando quasi sempre (nell’80% dei casi) dall’Ucraina. E questo è un problema. Ce ne siamo accorti nell’inverno del 2006, quando Gazprom, pretendendo di adeguare il prezzo di mille metri cubi da 50 a 230 dollari, non trovò l’accordo con l’Ucraina Naftogaz, e tagliò le forniture a Kiev. Un’operazione che ha provocato anche un brusco calo del flusso verso l’Ue, dato che gli ucraini, per non restare al freddo, prelevavano il gas dalle condotte russe che passano nel loro territorio. Un braccio di ferro che, da quell’anno, si riapre con diversa gravità a ogni inverno.
La ”questione ucraina”, così com’è, è irrisolvibile: Kiev non può fare a meno del gas russo ma non ha abbastanza soldi per pagarlo, nemmeno a tariffe di favore. Per quest’inverno l’Europa ha prestato all’Ucraina 1,7 miliardi di euro (che non saranno mai restituiti) proprio per evitare un’altra crisi.
Mosca ha deciso di risolvere il problema a modo suo: sta accelerando la progettazione di nuovi gasdotti che aggirino l’Ucraina e altri paesi che non ritiene affidabili, come la Georgia, la Repubblica Ceca, la Polonia, la Bielorussia, i Paesi baltici. I due principali sono il North Stream, che va verso la Germania e il South Stream, che va verso Austria e Italia.
North Stream è già in fase avanzata di realizzazione. Parte dalla costa russa sul Mar Baltico, attraversa le acque per 917 chilometri e riemerge in Germania. Avrà un capacità di 27,5 miliardi di metri cubi annui e dovrebbe iniziare a funzionare già nel 2011.
South Stream invece punta a trasportare il gas del mar Caspio (russo, armeno e kazako) per 900 chilometri attraverso il Mar Nero, dalla costa russa a quella bulgara, per poi diversi in due tronconi, uno diretto in Puglia e l’altro verso l’Austria. La capacità massima prevista è di 63 miliardi di metri cubi all’anno, il costo preventivato è di 25 miliardi di euro. I lavori dovrebbero iniziare a novembre di quest’anno per concludersi nel 2015.
Il progetto South Stream è a metà tra la russa Gazprom e l’italiana Eni. Ma l’Europa sponsorizza un progetto alternativo. Si chiama Nabucco – come l’opera verdiana che i fondatori avevano sentito la sera in cui decisero di avviare il loro piano – ed è stato lanciato nel 2002 dalla compagnia austriaca Omv e dalla turca Botas, col successivo coinvolgimento della bulgara Bulgargaz, la romena Transgaz l’ungherese Mol. Nabucco attraversa la Turchia collegando il Caspio al Mediterraneo, senza coinvolgere la Russia. Sarà lungo 3.400 chilometri, avrà un capacità di 30 miliardi di metri cubi e costerà 4,6 miliardi di euro. Il consorzio prevede di realizzarlo per il 2014.
Nabucco ha l’appoggio anche degli Usa, mentre la Banca europea degli investimenti e la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo hanno garantito i finanziamenti. L’obiettivo di questo progetto è evidente: ridurre la dipendenza europea dal gas russo.
«Nabucco? Un gasdotto con un nome simile non si farà mai» ironizzava due anni fa Aleksandr Medvedev, allora numero due di Gazprom e oggi presidente della Federazione Russa. «Quando il gasdotto russo che attraversa l’Ucraina si chiama Fratellanza, c’è poco da fare dello spirito» gli aveva risposto un funzionario Ue addetto al dossier.
I due progetti non sono semplicemente alternativi. Quella tra Nabucco e South Stream è una partita che non può finire in pareggio. «Non sono progetti complementari – ha chiarito Necdet Pamir, membro turco del Consiglio mondiale per l’energia – perché mirano agli stessi clienti e non ci sono risorse per entrambi. Se uno dei due ha successo l’altro potrebbe essere rimandato di almeno un decennio». Chi arriva prima, in pratica, ha vinto.
L’Europa è divisa. L’Italia, per il coinvolgimento dell’Eni, tifa per il South Stream; la Germania, legata a Mosca da diversi progetti, pure. La Francia (che con Edf vorrebbe entrare nel progetti di Eni e Gazprom) anche. La Gran Bretagna e gli ex stati sovietici preferiscono il Nabucco, e hanno il sostegno degli Stati Uniti.
Non è un caso che una delle prime uscite pubbliche del nuovo ambasciatore Usa in Italia, David Thorne, ha riguardato ”l’eccessiva dipendenza dal gas russo”. E Knight Vinke, uno dei fondi americani che hanno una quota di Eni, ha rilanciato la questione del rapporto con Mosca.
La differenza tra South Stream e Nabucco è «che noi abbiamo il gas, e loro no» diceva qualche settimana fa Serghej Shmatko, ministro russo dell’Energia. Non era una battuta campata in aria, ma un dato di fatto: il gasdotto di Eni e Gazprom sa già dove andare a prendere il gas da trasportare in Europa. Può attingere ai giacimenti russi e ha un diritto di prelazione su quelli azeri. Il suo rivale, invece, quel Nabucco al momento non si è assicurato con certezza nemmeno un metro cubo di gas.
Il metano a cui punta Nabucco sarebbe lo stesso di South Stream: quello dell’Azerbaijan e dai paesi oltre il Caspio, come Turkmenistan e Kazakhstan. Nazioni più o meno dittatoriali con cui Mosca ha un rapporto privilegiato. Le società che coordinano il progetto appoggiato dall’Ue guardano anche al gas dell’Iran, ma subito è arrivato l’altolà degli Usa, e a quello dell’Iraq. In realtà avrebbero anche firmato un contratto con delle società degli Emirati per sfruttare due giacimenti nel Kurdistan iracheno. Ma sono accordi che non hanno coinvolto il governo centrale, e Baghdad ha avvertito: ”Valgono come carta straccia”.
Corteggiatissimo anche il Kazakhstan, sterminata ex-Repubblica sovietica riscopertasi autentico forziere energetico: 2 trilioni di metri cubi di gas di riserve provate, 3 di potenziali; 9 miliardi di barili di petrolio che in realtà potrebbero arrivare a 40. E poi il 20% delle riserve mondiali di uranio, che fanno del Paese il terzo produttore del mondo. Oggi il Kazakhstan sforna 1,3 milioni di barili di greggio al giorno (contro i 9 della Russia) ma il flusso dovrebbe più che raddoppiare a partire dal 2015, quando il Paese promette di pompare qualcosa come 106 miliardi di metri cubi di gas annui, più di quanto brucia la Germania in un anno.
Tra i paradossi di questa situazione c’è quello della Turchia: nazione praticamente senza gas che si trova al centro di tutti i progetti. Circondata dall’Iraq, dall’Iran, dagli Stati del Caspio, dalla Russia e – più lontano dall’Egitto – la Turchia è in una posizione straordinariamente favorevole per il controllo dei flussi di gas verso l’Europa. Ankara sta ovviamente cercando di sfruttare al meglio la situazione. Ad agosto ha concesso il passaggio a South Stream (in cambio di ricchi progetti con Mosca, tra i quali un oleodotto da realizzare con Eni che collegherà Samsun, nel Nord del Paese, a Ceyhan, nel Sud, e una o più centrali nucleari), dopo che il 13 di luglio aveva firmato l’intesa intergovernativa per il Nabucco.
Con il via libera ottenuto dai turchi, South Stream conta di avviare già a novembre i lavori. Ma anche questo progetto ha i suoi problemi: Gazprom è già pesantemente indebitata e si trova a gestire due progetti costosi come North Stream (13 miliardi di euro) e South Stream (20 miliardi di euro). La speranza dei promotori del Nabucco è che i problemi finanziari affondino il progetto rivale.
Se tutti i progetti andassero in porto l’Italia potrebbe scoprirsi con un eccesso di approvvigionamento di metano. Con Nabucco, South Stream e cinque rigassificatori avremmo a disposizione il doppio del gas attuale. Poi ci dovrebbe essere il nucleare, con le otto centrali a cui pensa il ministro dello Sviluppo economico Scajola. Qualcuno pensa che la grande concorrenza tra fonti possa far male al sistema. Maurizio Ricci: ”Se il nucleare risultasse più competitivo, un ventaglio di gasdotti e rigassificatori si troverebbero presto fuori mercato, privi di domanda. Se fosse l´elettricità prodotta dalle centrali a gas a risultare meno cara, sarebbero le centrali nucleari a rivelarsi antieconomiche”.