http://www.ciao.it/Gennaio_2008__Opinione_1064417, 5 ottobre 2009
STORIE : COME STORIE DI DONNE
MARIA SOFIA DI BAVIERA
Sempre in tema di commedie, un posto di primissimo piano spetta di diritto alla lunga e grottesca cerimonia che si svolse nel salone d’onore del palazzo del governo, a Trieste, diviso per l’occasione da una striscia che voleva simboleggiare il confine tra due regni : quello di Baviera e quello di Napoli. Ma dei due protagonisti solo uno era presente di persona : la bella Maria Sofia; e il riso, nel guardarsi intorno, le saliva spontaneo dal cuore. Allora cercava con gli occhi la sorella Elisabetta, l’imperatrice d’Austria, che a cenni le faceva segno di pazientare.
Un tavolo era stato collocato al centro del salone, proprio là dove correva la linea dell’immaginario confine. Due sedie, poste esattamente di fronte, ai due lati opposti del tavolo, completavano la messa in scena. Seduta sulla prima, che idealmente figurava in territorio bavarese, Maria Sofia ricevette gli omaggi del suo seguito, ammettendo i più intimi al bacio della mano. Poi, tenuta per mano dal duca di Rachberg, varcò il confine e andò a prendere posto sulla seconda sedia.
Adesso le toccava ascoltare il lungo indirizzo d’omaggio che, con linguaggio forbito e meridionalmente ampolloso, le rivolgeva il duca di Serracapriola, il gentiluomo inviato dalla Corte partenopea perché prendesse in consegna, a nome del principe ereditario Francesco di Borbone, la giovane sposa tedesca.
Fu la parte più malinconica di tutta la commedia. Impulsiva e insofferente, Maria Sofia a un certo punto non seppe più contenersi : qualcuno la vide addirittura ripetere, con accento caricaturale, i gesti dell’inviato di Ferdinando II. E tuttavia anche la sua spregiudicatezza non era ormai che un elemento della commedia, perché dimostrava chiaramente come nemmeno i maggiori interessati riuscissero a sopportare la splendida retorica su cui si basava il residuo prestigio delle declinanti monarchie assolute.
Maria Sofia si imbarcò poi sulla fregata napoletana La Fulminante, che aveva gettato le ancore nel porto. Qui non attese a lungo per dimostrare agli scandalizzati rappresentanti della bigotta Corte partenopea di che panni vestisse. Infatti la si vide comparire in coperta abbigliata da cacciatrice, provvista di una luccicante carabina con la quale affermò di avere l’intenzione di sparare alle rondini di mare. Come se ciò non bastasse, spinse la sua audacia fino a sedersi tranquillamente sull’affusto di un cannone, prendere da una tasca un sigaro brasiliano e accenderlo dinanzi agli esterrefatti cortigiani del seguito e degli ammirati marinai.
Maria Sofia di Wittelsbach era figlia di Massimiliano di Baviera, che veniva comunemente indicato come l’uomo più bello del suo tempo. Stravagante e dissipato, conduceva una vita brillante e intensa, lontano dalla moglie Luigia Guglielmina, dalla quale si era separato. Alle figlie egli aveva dato un’educazione libera e romantica, che ne faceva delle splendide amazzoni. Tra esse, la più avvenente era Elisabetta, ma il fascino di Maria Sofia era quasi altrettanto irresistibile.
Ben diverso, anzi addirittura opposto, era il carattere dello sposo, il futuro Francesco II. Mite, affabile, delicato, timidissimo, il giovane aveva preso quasi per niente dal sanguigno temperamento plebeo del padre, Ferdinando II, che lo aveva per questo ribattezzato cl nomignolo, affettuosamente dispregiativo, di "lasagnone". Dal canto suo, il popolino napoletano lo chiamava "Franceschiello", quasi volesse così sottolineare la sua femminea gentilezza. Certo, l’erede al trono ricordava soprattutto la madre, Maria Cristina di Savoia, morta poco dopo averlo dato alla luce, in concetto di santità.
Franceschiello e Maria Sofia non erano dunque una coppia ben assortita. Più di un consigliere lo aveva fatto notare a Ferdinando II, ma invano. Il re di Napoli vedeva nel matrimonio del figlio un mezzo per legarsi maggiormente alla Casa d’Austria, visto che le vecchie frontiere di acqua santa e acqua salata, come lui le chiamava, non garantivano più a sufficienza la stabilità del regno. Fermo nel suo progetto, egli aveva, anzi accelerato i tempi. Il giorno di Natale del 1858 il suo incaricato d’affari presentava alla Corte di baviera la richiesta ufficiale delle nozze. A Maria Sofia veniva consegnata una fotografia del duca di Calabria, questo era il titolo che spettava a Franceschiello, in divisa da ufficiale degli ussari. E certo, guardato su quel freddo cartoncino, il giovane non dovette dispiacere alla principessa : aveva un’aria romantica e un pochino triste, che chiamava la simpatia. Le nozze, per procura, furono celebrate l’8 gennaio 1859, cioè appena due giorni prima che Vittorio Emanuele II pronunziasse, all’apertura del Parlamento subalpino, quel famoso discorso della corona destinato a suscitare un’eco clamorosa in tutte le cancellerie europee; oltre, s’intende, ad accendere gli animi dei patrioti che in ogni regione d’Italia attendevano
Fotografie per Gennaio 2008
Gennaio 2008 I sovrani di Napoli
Francesco II e Maria Sofia
con ansia l’annuncio della guerra nazionale. Era il discorso che verso la fine conteneva le seguenti, esplosive parole "mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi".
Al di là del loro significato strettamente politico, quelle parole mettevano decisamente il Piemonte alla testa del moto unitario e suonavano come rintocchi di campane a morto per tutto ciò che in Italia era vecchio e sorpassato. E il regime borbonico, già definito piuttosto ampollosamente "negazione di Dio" da un diplomatico inglese, avrebbe potuto vantare un indiscutibile primato in materia se a contendergli la palma non si fosse fatto avanti lo Stato Pontificio.
Ma di tutto questo Maria Sofia era perfettamente ignara. Per il momento, ella era soltanto una ragazza che andava incontro allo sposo e che aveva portato con sé, perché le alleviasse la malinconia, il fedele canarino Hansì. Si avvicinò quindi a Bari col cuore pieno di romantici sogni, desiderosa d’affetto e di comprensione. In fondo, era l’eterna creatura del nord che scende verso il sole e l’azzurro del sud, verso la passione.
Ed ecco la prima, profonda delusione. Franceschiello non aveva niente dell’uomo ch’ella aveva sognato. Timido, pallido, le andò incontro con movimenti impacciati, evitando di guardarla negli occhi. E poiché lui ignorava il tedesco e lei non conosceva una parola di italiano, si salutarono in francese "Bonjour, Marie", "Bonjour, François". E fu tutto.
Grandi feste erano state preparate per solennizzare l’avvenimento, che nelle intenzioni di Ferdinando II doveva servire a suscitare nel popolo un’ondata di passione per la monarchia regnante. Non ci sarebbe stato motivo, altrimenti, che si mettesse in viaggio per andare incontro alla nuora, affrontando il tragitto da Caserta alle Puglie nel cuore dell’inverno. L’impresa, già di per sé non agevole, aveva assunto aspetti drammatici a causa delle eccezionali nevicate che in più punti avevano bloccato le strade, costringendo il corteo a proseguire a piedi. E infine il re aveva contratto la misteriosa malattia, che fece correre la voce di un suo avvelenamento perpetrato dal vescovo di Ariano, monsignor Caputo.
L’episodio, ripetutamente smentito, è tuttavia riportato da storici degni di fede come Raffaele De Cesare, e pare addirittura che dopo la caduta del regno il Caputo se ne vantasse pubblicamente. Comunque entrò a far parte della leggenda che presto fiorì intorno alla figura di Ferdinando. Se ne trova l’eco nel poemetto di ottave ’O "luciano" d’ ’o Rre di Ferdinando Russo, il quale mette in bocc a un superstite fedele della defunta monarchia questi versi assai significativi :
E’ stata vuluntà d’ ’o Pat’Eterno, si uo, v’ ’o scommettesse a piezzo ’nmano, ca, si nun era munzignor Caputo, chillo, ’o Sessanta, nun sarria venuto!
Naturalmente, qui il giudizio storico è offuscato dalla passione di parte. Perché ’o sessanta sarebbe comunque arrivato lo stesso e non l’avrebbe certo fermato la mano di Ferdinando II. Se mai, a far precipitare le cose era stata proprio la gretta politica del monarca per il quale impazzivano i "lucani".
Fuori d’ogni leggenda, resta però il fatto indiscutibile della malattia del re. Impossibilitato a muoversi, Ferdinando II volle ugualmente assistere alle nozze da lui desiderate e combinate. Diede ordini, perciò, affinché la cerimonia ufficiale avesse luogo in una stanza del palazzo del governo adiacente a quella dove egli giaceva a letto. Attraverso la porta di comunicazione lasciata aperta potè così far sentire a tutti la sua presenza.
Terminata la cerimonia, un corteo di persone accompagnò la sposa fino alla soglia dell’appartamento nuziale. Qui la regina, Maria Teresa, la seconda moglie di Ferdinando II, le depose sulla fronte un bacio convenzionale e la lasciò. Accanto a Maria Sofia rimasero una dama e due cameriere. La prima, appena furono entrate nel boudoir, tolse alla principessa i gioielli di Corte che le erano stati messi per la cerimonia, li depose in uno scrigno e si allontanò col prezioso carico, camminando a ritroso perché l’etichetta vietava di volgere la schiena alla principessa ereditaria.
Le cameriere prepararono la sposa per la notte : le sciolsero le trecce, le fecero indossare una camicia di seta leggerissima, adorna di preziosi merletti. La camera era vasta, dal soffitto altissimo. Vi si gelava. La principessa osservò rabbrividendo il grande letto, nascosto sotto un sontuoso baldacchino. Proprio vicino ad esso si scorgeva la porta che immetteva nella camera occupata da Franceschiello.
A un certo momento le due cameriere si ritirarono in punta di piedi, ma una di esse, una ragazza quindicenne di nome Marietta, rientrò quasi subito recando con sé la gabbietta col canarino Hansì. Commossa da quell’atto di gentilezza, Maria Sofia fece per abbracciarla; Marietta s’inchinò a terra e cominciò a scioglierle i lacci delle scarpine. Alle sue spalle la porta della camera si aprì silenziosamente e Nina Rizzo, la cameriera personale, avanzò fino al letto. Con un cenno, la nuova arrivata licenziò la ragazza, poi, a voce bassa, sussurrò alla principessa che, purtroppo, il duca di calabria non si sentiva bene e non poteva raggiungerla.
Franceschiello lasciò sola la giovane sposa anche nelle notti che seguirono. Perché la notizia dell’infortunio non trapelasse, di giorno egli si dimostrava oltremodo affettuoso, non si staccava un minuto dal fianco della moglie, la copriva di attenzioni, ogni tanto le metteva tra le labbra un cioccolatino.
Le condizioni del re, intanto, peggioravano. Si rese quindi necessario prendere una decisione per il ritorno a Napoli. Un giorno Ferinando II fu portato a bordo della Fulminante, con tutto il suo letto. Lo scortavano i fidi "lucani", i marinai del popolare borgo di santa Lucia.
Dopo un tetro viaggio, la nave gettò le ancore dinanzi a Portici, dove il re venne sbarcato e fatto proseguire in treno fino a Caserta. La sua forte fibra ormai andava cedendo rapidamente. Disperata, Maria Teresa mandò a chiamare il famoso Vincenzo Lanza, il medico liberale che era da qualche anno rientrato dall’esilio. Il Lanza accorse alla reggia, ma non gli fu concesso di vedere il re. Uno dei medici curanti, certo Rosati, gli fece una lunga relazione sul decorso della malattia. "Ma se era per ascoltarvi, perché mi avete fatto venire da Napoli ?", protestò Lanza. Poi, con accento ironico, aggiunse "Il re starà bene. Nutritelo con latte di donna".
La battuta di spirito fece ridere Rosati "Innanzi a Vincenzo Lanza non si ride !", esclamò furibondo il grande medico. "Ferdinando II morirà dopo aver contemplato il proprio cadavere. Non c’è più rimedio".
La fine di Ferdinando II è narrata con accenti popolarescamente patetici nel citato poemetto di Ferdinando Russo, che al suo primo apparire ebbe anche l’onore di finire sul tavolo di un giudice, incaricato di reprimere le residue, poetiche nostalgie borboniche napoletane. Ecco le ottave che narrano gli ultimi giorni della vita del re e l’episodio di Vincenzo Lanza.
Comm’ ’o portàimo, a buordo o’ Furminanto ?
Comme jette da Puortece a Caserta ?
Erano mise, a chi assaggiava tanto !?
Erano mise, ch’io durmeva all’erta!
Doppo priato a Dio santo pe santo,
’a povera Riggina, amara e sperta,
dice : - Tentammo st’urdema speranza,
e mannammo a chiammà Vicienzo Lanza!
Chisto era gran duttore e liberale,
ma currette, dicimmola comm’è!
Surtanto, le fui ditto, tale a quale,
ch’isso, ’o malato nun l’avea vedè!
S’era penzato ca pareva male
Fa trasì stu nemico nnant’ ’o Rre;
e Lanza se strignette dint’ ’e spalle :
"A salute d’ ’o Rre nun va tre calle!"
"Comme, nun va tre calle ?" "V’ ’o ddich’io!
E’ inutile, sta viseta add’ ’o Rre !
Io sò chi so ! Faccio ’o mestiero mio!
Ma è troppo tarde, mo! Sentite a me!….
P’ ’o riesto, nu miracolo ’o fa Dio;
ma….si ’o facesse…’o vularria vedè!
’O fatto è chiaro comm’acqua ’e funtana!
Dàtele latte ’e femmena, e se sana!
’O miedeco curante era Rusato,
e se mettette a ridere. N’ ’o crire ?
dicette Lanza; fai c’aggio sbagliato ?
Nuanza a Vicienzo Lanza nun se rire!
E, certo, o scienza, o c’ato fosse stato,
nui simmo jute cu ’e vestite nire!
Speravamo, nce davamo curaggio,
ma ’o Rre murette ’o vintiduie ’e maggio.
E così quando aveva appena 19 anni, Maria Sofia si trovò di colpo a essere regina, accanto a un uomo che era suo marito soltanto di nome. Da Caserta la Corte venne nuovamente trasferita a Napoli, dove la giovanissima sovrana si fece ammirare dal popolo per la sua sfolgorante bellezza.
Ma il regno dei Borboni era ormai condannato e, comunque, non avrebbero potuto salvarlo dalla rovina due fragili mani di donna. L’anno successivo all’ascesa al trono di Franceschiello, Garibaldi sbarcò in Sicilia e l’incredibile si verificò : un esercito agguerrito non riusci a tenere fronte a un migliaio di volontari male armati e senza niente che li difendesse alle spalle. Avvennero defezioni, tradimenti, atti che comunque dimostrarono il distacco delle popolazioni dalla monarchia borbonica. La Sicilia a poco a poco fu perduta ed ebbe inizio l’invasione del territorio metropolitano. A marce forzate, precedendo le sue stesse truppe, Garibaldi puntò su Napoli.
Per salvare il trono, apparve allora chiaro come ci fosse un solo tentativo da fare : il re avrebbe dovuto assumere direttamente il comando dell’esercito. "Vostra Maestà monti a cavallo, e noi saremo tutti con Vostra Maestà : o cadremo da valorosi, o butteremo a mare Garibaldi", gli disse uno dei Marescialli di Corte, il Carascosa. Maria Sofia appoggiò la proposta, anzi chiese per sé un posto all’avanguardia. Dopo molte perplessità, Francesco II respinse l’idea. Prese invece la decisione di ritirarsi a Gaeta in attesa degli eventi.
Il 6 settembre, all’imbrunire, i giovani sovrani lasciarono Napoli e s’imbarcarono sul Messaggero, che era comandato dal "luciano" Vincenzo Criscuolo. Nella fuga, il re e la regina furono quasi soli perché la stragrande maggioranza della flotta non obbedì all’ordine di trasferirsi a Gaeta, essendo già venuta a patti con l’ammiraglio Persano, che comandava la flotta piemontese, giunta a Napoli su ordine di Cavour per tentare la conquista della città prima che vi arrivasse Garibaldi e comunque con l’incarico di frenare il dittatore, che non nascondeva la sua intenzione di marciare anche su Roma.
La commedia era ormai finita. Nè l’acqua santa né l’acqua salata avevano salvato il regno dallo sfaldarsi come una vecchia casa corrosa dal tempo. Il destino aveva voluto che a rappresentare sulla scena l’ultimo atto fosse un giovane che perlomeno non aveva colpe dirette da scontare, un giovane il cui aspetto e la cui educazione facevano un singolare contrasto con tutto il mondo che lo circondava a Corte. E per vibrargli il colpo finale stava calando da Torino un suo stretto parente : Vittorio Emanuele II !
Ci sono misteri nella storia che nessuno riuscirà mai a chiarire. Quello stesso esercito napoletano che non si era battuto sul serio contro Garibaldi, nella difesa di Gaeta dimostrò un valore tale da far seriamente dubitare che, ove si fosse risvegliato prima, i Mille avrebbero potuto compiere la loro conquista. Perfino Francesco II rimase sugli spalti della fortezza, sotto il grandinare dei colpi d’ertiglieria, soldato tra i soldati. I suoi fratelli, il conte di Caserta e il conte di Trani, benché giovanissimi, si batterono con grande sprezzo del pericolo.
Ma chi impressionò l’opinione pubblica mondiale fu Maria Sofia. Nacque allora la leggenda della meravigliosa amazzone che compariva sempre là dove più aspra era la lotta; la leggenda della regina che, dopo essere stata quasi seppellita dai calcinacci lanciati da un proiettile d’artiglieria, si risolleva sorridendo ed esclama "Peccato ! Ho desiderato tanto ricevere anch’io almeno una ferita! "
Il 9 gennaio 1861, mentre da terra e dal mare una pioggia di fuoco si abbatteva sulla città assediata, Francesco II festeggiò il suo venticinquesimo compleanno. Le speranze di poter rovesciare le sorti della guerra erano svanite, ma si continuava a combattere per l’onore della bandiera.
A Napoleone III che, esortandolo alla resa, lo invitava a mettere almeno in salvo la moglie, Franceschiello rispondeva che tutte le sue preghiere erano riuscite vane e che la regina si era trasformata in suora di carità per curare i feriti e confortare gli ammalati. Dal canto suo, il generale Cialdini, che guidava le forze assedianti, al comandante della piazzaforte che gli aveva mandato a chiedere della neve per uso sanitario, faceva rispondere che avrebbe subito provveduto e così concludeva il suo messaggio "Poiché è necessita dolorosa che gli Italiani pugnino contro altri Italiani, facciasi da ambo le parti quanto si possa per togliere alla nostra lotta ogni carattere di ferocia e di scortesia".
Da Roma, intanto, accorrevano a Gaeta dei volontari appartenenti alle più illustre famiglie dell’aristocrazia europe, che salutavano in Maria Sofia la nuova Giovanna D’Arco. Non a caso, infatti, alcune dame francesi le inviarono una statuetta della Pulcella d’Orleans. Il 21 gennaio, poi, con una solenne cerimonia religiosa, alla quale intervennero i giovani sovrani, venne ricordato l’anniversario del martirio di Luigi XVI. I partecipanti chiesero a Dio di salvare il trono dei Borboni, definiti la più illustre dinastia che avesse mai portato il diadema.
Novantadue giorni durò la difesa della piazzaforte. Alla fine bisognò cedere per evitare un inutile macello. Così il 13 febbraio venne sottoscritta la capitolazione e il giorno dopo, alle sette del mattino, Francesco II e Maria Sofia, accompagnati dal seguito e dal corpo diplomatico, lasciarono la città, salutati da ventuno colpi di cannone, e presero imbarco sulla corvetta francese La Muette. La bandiera dei Borboni, bianca coi gigli d’oro, fu ammainata sulla torre della piazzaforte e al suo posto salì il tricolore.
Nell’annunziare la vittoria ai suoi soldati, il generale Cialdini li invitò a non abbandonarsi a manifestazioni di giubilo, ma a radunarsi per la celebrazione di una solenne messa funebre in onore dei caduti, di ambedue le parti. "La morte", disse, "copre di un mesto velo le discordie umane e rende uguali gli estinti agli occhi dei generosi".
E Maria Sofia ? Riparata a Roma non ancora ventenne, abbasso la sua leggenda in una lunga serie di vani intrighi e si abbandonò a una passione colpevole per un ufficiale belga. Fu insomma una donna che, passando gli anni, andò sempre più intristendo nell’accidia dell’esilio. La sua vita ulteriore interessa semmai la cronaca, non più la storia. L’ultima immagine di lei che rimane consegnata alla storia è, perciò, quella della leggendaria amazzone che sugli spalti della piazzaforte di gaeta si batte eroicamente per una causa peruta.
FINE DELLA TRILOGIA.