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 2009  ottobre 04 Domenica calendario

Così la descrisse la baronessa Savio che in Torino, sino al trasferimento della capitale a Firenze, aveva tenuto uno dei salotti più frequentati e più à la page: "

Così la descrisse la baronessa Savio che in Torino, sino al trasferimento della capitale a Firenze, aveva tenuto uno dei salotti più frequentati e più à la page: " ... Il Governo trovavasi tra mille fuochi, tra mille ostacoli che gli impedivano le dritte vie, ma pure molto o poco camminava malgrado i tanti pericoli tra cui era costretto a veleggiare, tra i quali va annoverata la sorda opposizione di una piccola parte della nostra aristocrazia, che biasimava il suo operare, avversa com’era al grandioso concetto nazionale e politico di cui non aveva afferrato il senso, né la grandezza, giudicandolo solo alla stregua dei propri disappunti. A questo patriziato, non ricco perché onesto, bastava l’esercito, la Corte prima dello Statuto, colle sue gerarchie, i suoi privilegi e le sue secolari etichette, quando su per le scale del cavallo di marmo non saliva che gente fiancheggiata da quattro generazioni di avi; bastava la diplomazia del piccolo Piemonte, moderato com’era nelle sue espansioni. Casta esclusivamente ristretta in sé e ignara affatto del resto del paese, perché volta ai favori della Reggia, non è a stupire, ma anzi era logico quel viso dell’armi fatto a chi tenevasi come un intruso venuto dall’Italia ad insediarsi in casa nostra; gente estranea, accolta dal Re a braccia aperte in quelle trincee, dove i patrizi nostri credevansi inespugnabili. Noi siamo Piemontesi, non altro che Piemontesi erano le parole che sentivansi a tutte l’ore, quindi la lingua di Dante messa all’ostracismo, il dialetto o l’idioma francese portati al cielo; liberalismo, emigrati e barabba avendo un medesimo significato. Abbiamo fatto un bel guadagno dal ’48 in qua; Torino divenuto un paese di provincia, i portici pieni di gente che non si sa chi sia; il caffè Fiorio centro non più che a qualche invalido; si sentiva ripetere: Che Italia ! J’italian c’a stago a ca sua, car l’noster bel pcit Piemont ! Noi ch’i stasio ben sensa tuti coi fratelli d’un auter let... L’inno di Mameli non entrò mai nelle sale del patriziato. La vita di parentado, la vita di legazione, di reggimento e di Corte, stavano come le colonne d’Ercole, oltre cui era il caos. La borghesia, benché educata e a modo, non era gente, facendosi vanto i nobili di non conoscerla e studio di evitarla. Quanto al popolo, Dio mio: esso non esisteva che per l’opera manuale a cui fu fatto e per i doveri imposti a tutti dalla carità i quali, bisogna dirlo, esercitavansi largamente e continuamente. Quanti del patriziato aderivano al credo liberale, erano fatti segno ai più acri motteggi e messi in cessantemente in ridicolo... Ma in cotesti esaltati campioni dell’ordine antico, che non avevano ancora sentito l’alito della vita nuova, era fedeltà, era disinteresse, era bravura tradizionale, erano abnegazioni individuali che li sublimavano perché, avversi come erano a quelle guerre di emancipazione, fedeli al sovrano, fedeli a quella coccarda azzurra che da secoli era per loro una religione, malgrado il cambiato vessillo, stettero più mesi al fuoco, largheggiando del proprio sangue, e suggellando col sacrificio della vita un intento politico che detestavano. Non corrotto perché credente, non dissipatore perché non ricco, non svenevole perché fatto alle dure leggi della disciplina militare; non tumultuante perché ligio al trono e all’altare; tale era questo nostro patriziato piemontese il quale sentendo la piccola nave, dove s’era adagiato, spinta da gente nuova, tra acque ignote e in gran tempesta, osteggiava apertamente un’impresa considerata come una demenza demagogica... " (1).