varie, 3 ottobre 2009
ALLUVIONE DI MESSINA
CRONACA DELLA STAMPA (PAOLO COLONNELLO, 3/10/2009)
L’inferno ha il colore plumbeo del cielo e marrone scuro del fango. Ha il rumore acuto della pioggia che si trasforma in diluvio.
Il fragore sordo della montagna che crolla alle otto di sera inghiotte in pochi minuti case e persone al desco per cena. L’inferno sono le grida disperate di chi è ancora intrappolato dalla valanga e di chi piange le vite spezzate. Sono i morti che nessuno sa bene contare, i figli dispersi, i parenti scomparsi. L’inferno questa volta è qui, a 16 chilometri da Messina, in un paesino scavato nella roccia e senza più anime da consolare che si chiama Giampilieri. Un inferno che tutti sapevano prima o poi sarebbe arrivato.
«Erano quasi le otto, pioveva da almeno tre ore e già il fango aveva riempito le nostre strade, nessuno poteva più uscire dalle case e chi ha potuto ha provato a scappare». Laura Sanfilippo ha 15 anni e il viso dolce di una Madonna, tiene le gambe piantate nel fango alto più di un metro di via Vallone, il vicolo dove la montagna si è accanita più che altrove e ha spazzato via una manciata di case di due o tre piani. E dove ora si scava con una piccola ruspa per tentare di recuperare i corpi dei suoi cugini, due ragazzi di 20 anni.
«Io e i miei siamo saliti al piano di sopra e abbiamo sentito un boato atroce. Era la montagna che franava. Ho visto queste case crollare, abbiamo urlato. Ho iniziato a chiamare i miei parenti col cellulare perchè le linee telefoniche normali erano saltate. Ho chiamato subito i miei cugini e loro mi raccontavano che stavano impazzendo. Si sentivano morire, dicevano che stavano scoppiando i tubi del gas... dei topi in trappola. Chiedevano aiuto come disperati».
Ma nessuno poteva aiutarli. Per ore, fino all’alba, la gente di Giampilieri è rimasta completamente isolata. «Chiamavamo i soccorsi, ma ci dicevano che non si poteva passare dalla strada a mare». La terra, le auto e i detriti, sparati come missili impazziti dalle fiumare che arrivano fino alla costa e che l’altra notte hanno trasformato in paludi le terre aride in prossimità delle valli dell’Etna, hanno ricoperto in pochi minuti ponti, strade, ferrovia, scaraventando in mare tonnellate di fango che ancora ieri pomeriggio sporcava le acque smeraldine di questo tratto di costa. I primi drappelli di soldati si sono visti verso le 5, arrivati a piedi con le pale in mano. Poi è stata la volta delle ruspe. Ma i primi a scavare con le mani, sono stati loro, gli uomini e le donne di questo paese violato dalla natura.
«Di qui non si passa, non si passa nemmeno a piedi», grida il vigile all’incrocio di Giampilieri Marina, tra colonne di tir bloccati e camionette delle forze dell’ordine. Ma qualcuno grida più forte: «Ammuninne!», andiamo! E allora si va, con un gruppo di volontari delle ambulanze che portano il latte per i bambini, con i mariti, le mogli e i figli di chi per lavoro, per svago o per altri mille motivi, l’altra sera non era in casa. E si è salvato con l’angoscia nel cuore. Con le gambe che sprofondano nel fango si sale lentamente quella che fino all’altro ieri era una strada comunale che portava fino al mare dello Stretto. E s’incontrano auto rovesciate, case crollate, fantasmi fradici che vagano sotto una pioggia impietosa che talvolta si fa diluvio. E con il diluvio il torrente di Fiumara Storta diventa fiume impetuoso che di nuovo porta a valle corpi e detriti. Mentre le colline che circondano quello che una volta appariva come un Presepe siciliano, offese dalle speculazioni edilizie, ferite dagli incendi dei piromani, riprendono a smottare travolgendo, con un ritmo lento ma inarrestabile, ogni cosa sul loro cammino. Inghiottono negozi, case, persone. Perfino il capo della protezione civile, Guido Bertolaso, arrivato in elicottero fin quassù alle tre del pomeriggio, deve scappare tra i vicoletti pericolanti di Giampilieri, per non venire travolto: «Sono anni che lo diciamo, che avvertiamo, ci vuole più prevenzione». Ma una donna grida: «Vergogna! Dove eravate fino ad adesso?».
Mentre volontari, vigili del fuoco, soldati, poliziotti, finanzieri, carabinieri, combattono con pale e picconi una battaglia già persa in partenza. «E non finirà tanto presto, le previsioni sono pessime». Le prime ruspe sono arrivate di notte, chiamate dalle migliaia di cellulari che miracolosamente hanno continuato a funzionare e hanno permesso alla gente di organizzarsi, di scoprire i parenti e gli amici ancora vivi, di capire chi forse era morto. Ma la conta, la macabra conta di chi non c’è più, è ancora lunga da fare. Le voci si inseguono: chi dice 20 chi dice 30 o 50 dispersi. Chi parla di «oltre 100 morti», chi, giustamente, si ferma ai cadaveri finora raccolti: una ventina. I paesi colpiti sono tanti e molti ancora isolati: come Scaletta Zanclea, ad esempio, o Santo Stefano Briga. I danni, il fango, il terrore, sono arrivati fino alle spiagge e l’altra notte erano decine le persone che si sono rifugiate sui tetti delle case, tremando dalla paura per le valanghe impazzite che vedevano scorrere nelle strade e si portavano via storie e ricordi, negozi e abitazioni. Interrotta la ferrovia, dove si sono aperte voragini lungo i binari, bloccata l’autostrada da e verso Catania, travolta la statale costiera. Per trasportare i feriti e gli sfollati negli ospedali e nelle palestre di Messina, ieri mattina hanno dovuto utilizzare le navi perché il traffico impazzito impediva l’arrivo e la partenza di ogni soccorso per strada. I viveri per gli sfollati sono arrivato soltanto alle dieci di sera, dopo un giorno infinito di acqua e digiuno.
E piove, piove ancora, anche adesso che sono le 8 di sera di un «day after» gonfio di nuvole e tragedie. A Giampilieri la gente è stata radunata nella scuola elementare in attesa che la statale venga liberata e arrivino i pullman per trasportare gli sfollati negli albergi della costa, requisiti dalla Protezione Civile. Perché Giampilieri da ieri è un paese fantasma, distrutto, in bilico sui nuovi strapiombi creati dalle frane. E quando verrà abbattuto il ponticello della Fiumara Storta il rischio è che una nuova ondata di fango scivoli a valle. Si dice che un nubifragio del genere non si era mai visto da queste parti dove pure si è abituati a una natura impetuosa che rende d’impareggiabile bellezza quest’isola. Ma la rabbia è tanta, perché a Giampilieri nel 2007 la montagna era già franata proprio per un nubifragio e le fiumare, che nel Messinese sono spesso terra di conquista della più recente speculazione edilizia e della mafia, si erano gonfiate pericolosamente. «Quelli della Protezione Civile erano venuti qui, hanno costruito quello che per loro era un muro di contenimento e se ne sono andati: 60 mila euro investiti per mettere insieme 4 sassi e tanti saluti - racconta Placido Minutoli, 45 anni, bancario a Messina -. Così quando la montagna è crollata questi 4 sassi sono diventati palle da bowling. E ora mio cugino è morto e io non ho più una casa».
CRONACA DI REPUBBLICA
DANIELE MASTROGIACOMO
Il vigile del fuoco è una maschera di fango. La tuta è stracciata in più punti. Le mani sono ferite e piene di sangue. Non ha più fiato per parlare. Solo un soffio: «Là sotto c´è ancora gente intrappolata». Indica un punto, verso la notte che avvolge il paese. «Venti, forse trenta persone. Non lo sappiamo». Qualcuno ha sentito delle urla: «Aiuto, siamo qui». Il vigile tira dritto, ha bisogno di acqua, di cibo, di dormire. Lavora da 30 ore. Come altre centinaia di uomini e donne. di nuovo arrivato il buio, dopo che la notte scorsa il nubifragio ha sbriciolato la montagna, spazzando via case e paesi. Ma qui si continua a lottare per salvare chi ancora grida incastrato sotto quattro metri di terra e di acqua. Con tutto. Pale, vanghe, picconi, bastoni, pietre. A mani nude.
Fango, una distesa compatta di fango. Sopra, arrampicati sui tetti, i superstiti, donne, uomini e bambini. L´aria confusa, smarrita, gli occhi bagnati dalle lacrime e dalla pioggia, il volto contratto in una smorfia piena di paura. Sotto, tra i detriti, l´acqua e la terra, gli altri. I fuggiaschi, i dispersi, i morti. Si scava al buio. Un buio pesto, il cielo ancora gonfio di nuvole grigie e nere. Ha ragione Guido Bertolaso, il direttore della Protezione civile, l´uomo dei disastri e dei miracoli. «Anche con le mani». Lo abbiamo visto fare anche noi. Il tempo, come sempre in questi casi, detta i ritmi della vita e della morte.
I cadaveri restano allineati a terra, avvolti da coperte e da teli di plastica. Qualcuno lo hanno già portato via. Ne hanno trovati 18. Ma ci sono anche 35 dispersi. Nessuno, in questo mare vischioso di terra, tronchi, cemento, mattoni, ferro, mobili e carcasse di auto, è in grado di tracciare un bilancio definitivo. un disastro immane. Almeno in quattrocento sono rimasti senza casa. Lungo la costa orientale della Sicilia, tra Catania e Messina, là dove si apre una tra le più suggestive insenature dell´isola, dove frotte di turisti si godono i Giardini Naxos e le scogliere a strampiombo di Taormina, l´incuria dell´uomo e la speculazione edilizia sono riuscite a uccidere più della natura.
Un violento temporale, di quelli che il nostro paese riesce a far assomigliare sempre più spesso a degli uragani, si è accanito lungo sette chilometri della costa. «Ha iniziato a piovere verso le 5 di giovedì pomeriggio», racconta Gianni Alì, 70 anni trascorsi a pescare. «Due ore dopo l´acqua era salita di due metri». Lascia la scopa con cui cerca di spazzare il fango e indica il muro della casa. In alto, dove non si riesce neanche ad arrivare con la mano, c´è ancora il segno. Bagnato. Scuote la testa. «Vada più avanti, dopo il viadotto. un cimitero».
Si avanza a tentoni, rasente i muri. Due piccole ruspe salgono e scendono da quella che è una collina alta sei metri. I piedi entrano nella melma e sprofondano oltre il ginocchio. Una morsa che si allenta solo quando troviamo i rivoli di acqua che scendono ancora dalla montagna. Avanziamo con altri vigili del fuoco, le torce che illuminano i muri delle case, le finestre dei secondi e terzi piani. Sulla sinistra spunta il campanile di una chiesa.
L´ingresso è sotto due metri di terra. Sui tetti figure che sembrano fantasmi agitano mani e vestiti. Chiedono aiuto, tra fischi smorzati dal vento e urla che arrivano come rantoli. «La pioggia ha trascinato a valle mezza montagna», spiega il pompiere che ci accompagna. «Il fiume di detriti e terra si è schiantato sulle case che hanno fatto da tappo. Molte sono crollate sotto il peso. Altre hanno resistito e deviato il corso tra i vicoli. Quando si è riversato sulla provinciale, è stato come uno tsunami».
Nessuno se lo aspettava. «Questa volta», ammette Roberto, 35 anni, proprietario di un bar di Scaletta Zanclea e ora impegnato negli scavi di Giampilieri, «ci ha colti impreparati». Gira la testa verso la montagna. «La colpa è nostra - ammette con voce cupa - Gli incendi hanno indebolito le radici, gli alberi sono spariti. Ognuno si fa un pezzo di casa, si allarga, di lato e in altezza». Resta in silenzio. Sospira: «Lo sapevamo tutti. Bisognava aspettarselo. già accaduto due anni fa e siamo stati risparmiati. La natura, prima o poi, si vendica. La montagna ha ceduto. Quei morti li portiamo sulla coscienza».
Le prime due ore di pioggia hanno provocato uno smottamento sull´autostrada Catania-Messina. L´ultimo tratto, dopo Giardini Naxos, è stato chiuso. Il traffico è stato deviato sulla litoranea. Un budello più che una strada. Si è formata una lunga fila, sferzata da a raffiche di vento e pioggia che cadeva come una cascata. «Stavo in finestra», spiega con un groppo in gola Salvo, 54 anni, meccanico. «Guardavo il mare che si stava gonfiando e l´acqua che saliva dalla strada. Di colpo, dalla montagna è arrivata l´ondata di fango. Le auto sono state investite in pieno. Correvano in mezzo all´acqua che saliva sempre di più. Alcune si sono salvate, altre, come in una giostra dell´orrore venivano capovolte e trascinate verso il mare».
Le carcasse, trascinate dalla piena hanno formato una valanga di ferro e detriti. Hanno travolto ogni cosa, distrutto muri, infranto portoni e sventrato saracinesche. Sono crollati i pali della luce, sono saltate le linee telefoniche, sono volate le celle delle telefonia mobile. Avvolto da un buio che metteva paura, con l´acqua che continuava a salire, assieme alle auto, ai camion, ai furgoni, la gente ha cercato scampo sui tetti. «Molti gridavano, alzavano i pugni verso il cielo, si abbracciavano», ricorda Salvatore, 31 anni, pescatore. «Il mantello nero che ci avvolgeva, il vento e la pioggia, il mare sempre più grosso ci facevano sentire in trappola». Qualcuno è rimasto tappato in casa. Molti hanno pregato. Una donna anziana è stata sommersa nel suo divano. Alcuni, presi dal panico del fiume di fango che continuava a salire, hanno tentato di calarsi verso la montagna. Solo pochi, contusi e feriti (se ne contano una quarantina), sono riusciti a trarsi in salvo. Gli altri sono stati trascinati e poi sepolti».
Una trentina di persone è finita in mare, incastrata nella auto che rotolavano assieme al fiume di terra e detriti. Una motovedetta della Guardia costiera che incrociava a largo è stata dirottata verso terra. Con i fari di bordo ha sondato il mare alla ricerca dei superstiti mentre la tromba d´aria sollevava onde di due metri. Anche adesso l´acqua è melmosa, piena di terra. Dicono che tre corpi siano affiorati all´alba.
Molti, almeno un centinaio, sono stati portati in salvo via mare (ancora adesso le barche fanno la spola verso Scaletta Zanclea, Briga, Santo Stefano, Alì): un fiume di uomini e donne, i bambini in braccio, un fagotto in testa, buste di tela e di plastica piene di oggetti arraffatti di corsa. Camminano come fantasmi, gli sguardi duri, i capelli arruffati, il viso segnato dalla stanchezza e dal dolore.
stato dichiarato lo stato d´emergenza. Il sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca, è esasperato: «Abbiamo bisogno di uomini e di mezzi. Da soli non ce la facciamo». La Procura ha aperto un´inchiesta per disastro colposo. Come sempre, quasi un obbligo. Cercherà di stabilire colpe e responsabilità. Qui, tra questo cimitero di fango, hanno già emesso la sentenza. Lo dicono a denti stretti, scuotendo il capo rassegnati: «La colpa è solo nostra. Ce la siamo cercata. I colpevoli siamo noi».