http://www.archive.org/stream/commemorazioned00italgoog/commemorazioned00italgoog_djvu.txt, 3 ottobre 2009
COMMEMORAZIONE DI MARCO MINGHETTI
DI
Marco Minghetti
RESOCONTO STENOGRAFICO
ROMA
STABILIMENTO TIPOGRAFICO ITALIANO
diretto dt, L. Pcrelli
1887
La commemorazione di Marco Minghetti indetta dalla
Associazione della Stampa ha avuto luogo nell’aula mas-
sima del Collegio Romano» domenica 16 gennaio 1887, alle
ore 2 112 pom. La vasta sala era addobbata tutta in giro
di trofei di bandiere congiunti da corone d’alloro. Adornava
la parete di fondo un ricco panneggiamento in tela d’oro
e velluto nero, su cui spiccavano due immense corone di
fiori; in alto fra le bandiere dai colori d’Italia e del Comune
di Roma un busto del Re.
Al centro s’ergeva il banco presidenziale, a cui sedeva
l’on. Bonghi, Presidente dell’Associazione della Stampa, avente
alla sua sinistra il vice-presidente on. Roux ed alla sua de-
stra l’avv. Pacelli presidente del circolo Camillo Cavour. Fra
il banco presidenziale e la tribuna, innalzata a destra per l’on.
oratore commemorante, era collocato un busto in gesso di
i
i
’ Marco Minghetti squisitamente modellato dall’egregio scul-
tore Lio Gangeri, a preghiera dell*Associazione.
Assistevano i Ministri, il Corpo Diplomatico, le Presi-
denze delia Camera e del Senato, il sindaco di Roma, gli
cx-Minìstri dei Gabinetti presieduti dal compianto Statista;
1 rappresentanti degl^ alti Corpi dello Stato, della famiglia
Minghetti (bn. Camporeale e ammiraglio Acton), dei Mu-
nicipi di Bologna (Assessore Sacchetti), di Legnago (ono-
revole Pullè), di Cologna Veneta (avv. Luzzatto), dell’As-
sociazione Costituzionale delle Romagne (on. Baldini), delle
Associazioni liberali cittadine; molti Senatori e Deputati,
Professori d’Università, Magistrati, alti funzionari; infine un
pubblico di oltre 1500 pei sone, composto di numerosissime
gentili signore e di quanto Roma ha di più eletto ntlla po-
litica, nella scienza, nelle arti.
L’on Bonghi prese pel primo la parola e la tenne per
verni minuti, dandola poi all’on. Crispi, che parlò per poco
più di mezz’ora. Alle 3 112 la solenne cerimonia era ter-
minata fra la commozione profonda degli astanti.
DISCORSO
dell’onorevole RUGGIERO BONGHI
’Prtsid*ntt dtir Assoeioìiione della Stampa.
Signore e signori!
Noi ci siamo qui raccolti a compiere un mesto
ufficio, gentili Signore e Signori: a ricordare a
noi stessi la vita di un uomo, che onorò grandemente
r Italia, anzi, più che onorarla, l’amò di ardente e
virile amore quando era tuttora giacente, sangui-
nosa, xìilacerata; ed ebbe molta parte ad ergerla in
piedi, come è ora, sicura di sé, rispettata e temuta
fra le nazioni.
Marco Minghetti è sparito di mezzo a noi da
poco oltre un mese. La morte sua svegliò un’eco
di dolore in tutta Italia, anzi i^ tutta l’Europa ci-
vile; che si può dire non ci fosse italiano, il cui
nome avesse più larga espansione del suo, e ri-
scuotesse, dovunque era noto, maggiore affetto ed
ossequio. E di ciò erano causa le molteplici virtù
’ 8 -
del suo ingegno e la costante virtù del suo animo,
ramabilìtà di ogni tratto della indole intellettuale
e morale di lui, l’equità non mai smentita del giu-
dizio, la probità della vita privata e la sincerità
della pubblica.
Nessuno splendore mancò a lui. Alto, bello della
persona aveva la parola ricca di spirito nella con-
versazione, ricca di dottrina nelle assemblee ; e in
quella e in queste pura, copiosa, fluida, scintillante
di chiarezza e piena di efficacia. Scrittore lindo,
preciso, nemico di adornamenti vani, d’una squisita
limpidità di stile, si è servito della penna a diffon-
dere nel paese dottrine politiche ed economiche
ispirate a un sentimento largo di libertà e di pace
e armonia fra le classi; a diffondervi ancora l’a-
more di un’arte, che ricordasse noi italiani a. noi
stessi, ci ritornasse ai tempi migliori e più gloriosi
della storia artistica nostra, e non fosse viziata da
nessuna delle corruttele e delle smancerie moderne,
che chiamiamo progressi.
Invitato più volte dalla fiducia del Re e del paese
a reggere lo Stato e a rappresentarlo presso Go-
verni esteri, ebbe, nell’ordinario all’interno o nel
conciliargli alleati di fuori, maggior parte forse
di qualunque altro uomo di Stato italiano dal
Conte di Cavour-|in fuori. E quando non fu più
né ministro, né ambasciatore, ma mero deputato,
continuò, senza amari ricordi o vanaglorie, a te-
nere e ricondurre il più che potesse lo Stato
nelle vie di politica intema ed estera, che a lui
erano parse sempre le migliori e le più sicure. Né
’ 9 –
mai, in tanta sua azione pubblica, con tanta ripu-
tazione acquistata come uomo politico e come
scrittore, non mai, dico, fu scoperto in lui che avesse
il pensiero a sé, anzi non l’avesse tutto intero ri-
volto alla patria; non mai esercitò il suo potere o
usò la sua influenza a beneficio d’amici, o a pro-
muovere fini privati suoi o d’altri.
Quella giustizia nell’Amministrazione, ch’egli di-
fese con le parole e con gli scritti, osservò cogli
atti; e delle influenze politiche indebite, di cui ebbe,
per carità dello Stato, ad accusare od a censurare
l’uso, nessuno accusò o censurò lui.
Spettava all’Associazione della Stampa di chia-
marvi, gentili Signore e Signori, a questa mesta
riunione, che però non è senza conforto, perchè è
segno di grandemente amare la patria volerne
onorati, viventi e morti, i cittadini migliori. Il
Minghetti è stato socio nostro; ^^ anche in ciò egli
aveva mostrato la buona tempra del suo ingegno e del
suo animo. Gli era parso, e a ragione, che accrescere
le relazioni tra quelli che dirigono la cosa pubblica
nei più alti gradi, e quelli che ne scrivono giornal-
mente, giovi agli uni e agli altri; che del resto egli
stesso ha scritto di rado in giornali politici quoti-
diani; rindole della sua mente rendendogli neces-
sario e facendogli 4)arere utile più largo spazio e
sviluppo del pensiero di quello che permette un
’ giornale siffatto.
Due altre Associazioni, che avevano avuto in
pari tempo il pensiero di questa Commemorazione,
pregate di volersi associare a noi, vi hanno accon-
’ IO –
sentito, e ne rendiamo loro graiie: TUnione Mo-
narchica-iiberale, dì cui è presidente il deputato
Ruspoli, e il Circolo Cavour presieduto dall’avvo-
cato Pacelli. Ed era ben ragionevole che ci unis-
simo : l’Unione liberale fu fondata e per anni pre-
sieduta dal Minghetti; il Circolo prende nome dal-
l’uomo di Stato, che ebbe più caro il Minghetti,
e fu più caro a lui.
Ora chi scegliere, o gentili Signore e Signori, a
commemorare Marco Minghetti davanti a cosi scelto
uditorio ? Noi ne abbiamo pregato Francesco Crispi;
un uomo il cui nome basta, senz’altre mie parole,
a ricordare chi egli sia, che cosa abbia fatto per
quella patria, che il Minghetti amò tanto. Fran-
cesco Crispi è stato assai più volte dissen-
ziente dal Minghetti, che consenziente con lui nei
modi a seguire per fare 1’ I talia, e per governarla
dopo fatta. Ma in lui, accettante con pronto e
franco animo di commemorare V avversario poli-
tico suo, voi toccate con mano la natura dei dis-
sensi, che hanno talora diviso gli uomini della ge-
nerazione, a cui l’Italia deve di essere! (^Applausi);
e vi si rende visibile altresì la natura di Marco
Minghetti, che se ebbe avversari, non ebbe nemici.
("Bene!)
In Francesco Crispi, che co mmemora Marco Min-
ghetti, si mostra quanto intima e profonda sin fra
di noi l’unità degli animi (^Benissimo)) e che vena
di concordia e di fede scorra, sotto le diversità ne-
cessarie delle opinioni e dei partiti, (yipplaust).
Dove certo Francesco Crispi poggerà, con la sua
’ II –
parola viva, per incontrarsi con quello, di cui ha
voluto e deve parlarvi, non risplende, non raggia
più che un nome solo, quello di questa Italia u-
nita come è sotto una Dinastia gloriosa (^Beneì):
quel nome che ci è impresso a tutti, qualunque
sia il grado che occupiamo nella /ita pubblica, nel
più profondo recesso dei cuori nostri – assai più
forse che non sia impresso nel cuore di altri po-
poli il nome delle patrie loro – quel nome che
ci conforta nei nostri dolori, ci aiuta nelle nostre
fatiche e sarà, quando occorra, il labaro delle nostre
battaglie (Applausi). Io lascio in questo nome la pa-
rola a Francesco Crispi, che voi certo desiderate di
udire assai più che la mia, parola schietta e sicura,
che mi duole di aver dovuta indugiare per pochi^
minuti (tApplausi vivi e prolungati).
DISCORSO
dell’onorevole FRANCESCO CRISPI
Gentili signore e signori!
Invkato dal Presidente dell’ Associazione della stam-
pa a commemorare Marco Minghetti, non osai rifiu-
tarmi. Temo intanto, che io non sia il più adatto a
COS nobile ufficio. Tutti sanno, e Ton. Bonghi lo ha
ricordato, che Tillujtre uomo, del quale dovrò ra-
gionarvi, stette sempre in un campo opposto al
mio, e che ambidue appartenemmo a due scuole
diverse.
Lottatori più volte, nella Camera e fuori, Tun
contro l’altro, avemmo però comuni gli scopi, i
quali ciascuno di noi, per diverse vie, credeva di
poter raggiungere.
Giova però constatare, che era bello battersi con
Marco Minghetti (Bene!).
’ i6 –
Marco Minghetti fu il più nobile cavaliere del
Parlamento italiano. Combatteva, talora anche con
ardore, ma rispettava l’avversario; non l’offendeva.
Letterato ed uomo di Stato, era un artista in
tutte le sue manifestazioni. Il disordine e l’ ingiu-
stizia, il brutto ed il vizio offendevano l’animo
suo, devoto come egli era all’ordine ed al diritto,
al bello ed alla virtù (Bi:we /).
Gli avversari suoi rimanevano conturbati dagli atti
e dalle parole di lui ; ma a mente tranquilla dove-
vano più di una volta dargli ragione.
La sua orazione era ordinata, limpida l’ idea,
forbita la frase. Parlando non s’inebriava ; ma
attraeva. Spirito equilibrato, era sempre presente a
sé stesso: mirava alla mèta che doveva raggiun-
gere, non l’oltrepassava.
Qualità eminenti codeste in un oratore nelle as-
semblee politiche. Imperocché, se la frase violenta
talora scuote e commuove, spesso non fa amici
coloro che vi ascoltano.
Nati ambedue, a pochi mesi di distanza l’uno
dall’altro, siamo stati testimoni ed attori dei più
memorabili fatti della patria nostra. Egli a Bologna,
io in un estremo comune della Sicilia, abbiamo
tratto ciascuno di noi dalla diversa origine, dal
luogo natio, aspirazioni, educazione, attitudini, i-
stinti diversi; ma i medesimi desideri (^Benissimo !)
e il medesimo amore di patria, l’ardore medesimo
di liberarci dalle tirannidi, che opprimevano il no-
stro paese (^Benissimo /).
Animato dalle lotte incruente del patrio Ateneo,
’ 17 –
egli aveva fede sincera nel pacifico progresso delle
idee. Io al contrario, ammaestrato dalla costante
slealtà dei Principi, sperai sempre nel tempestoso
e spesso problematico trionfo delle armi cittadine.
Egli vide Modena, Bologna, Ancona, Rimini in-
sorte e poscia decimate : io vidi Catania, Siracusa,
Messina, Palermo in armi e insanguinate. Dai sup-
plizi e dagli esilii, che ne derivarono, egli trovò
ragione di persistere nel suo metodo; io ne trassi
la convinzione che i sacrifizi non erano mai troppi,
e che dal sangue sarebbe surto il successo che
spesso viene dalla disperazione.
Ed avvertite, che non gli eran mancati sin dai
suoi giovani anni eccitamenti e consigli per disto-
glierlo dal metodo da lui pensatamente scelto. Ri-
corderò un aneddoto della sua vita, abbastanza ca-
ratteristico e che merita essere conosciuto.
Marco Minghetti, a 24 anni appena, si era attirata l’attenzione di Pietro Giordani, il quale non senza motivo al 1843 gli scriveva esortandolo a leggere il tumulto degli Straccioni lucchesi e la sfortunata congiura del Burlamacchi, egregiamente narrati dal Beverini.
Il Burlamacchi, in minori proporzioni, voleva
tentare quello che con maggiore larghezza di scopi
concepimmo e tentammo noi nel secolo nostro.
L’infelice gonfaloniere di Lucca voleva riunire le
divise città della Toscana, cacciar Cosimo di Fi-
renze, toglier Perugia, Bologna ed Ancona al papa,
e di tutto quel territorio fare uno Stato solo. Ave-
vamo allora l’imperatore, padrone di Milano e di
- i8 -
Napoli, arbitro d’Italia, al quale non conveniva la
costituzione di lìberi e forti governi nella penisola.
Gli arditi divisamenti del cospiratore furono sven-
tati, e rimpresa falli prima di essere attuata. Ma non
perciò – osservava il Giordani – essi sarebbero
meno degni di essere conosciuti e attentamente
considerati; e soggiungeva che, se al concetto del
Burlamacchi fosse stato dato effetto, si potevano cam-
biare leggi, fortune, costumi a più di un milione di
toscani, e fuori di quella provincia a quasi altrettanti.
La sollevazione degli Straccioni hi un conato di
rivendicazione del popolo contro i nobili, i quali
nel 153 1 governavano Lucca, trafficavano, usureg-
giavano. Era còtesta la forma onde esplicavasi al-
lora la quistione sociale: quistione antica, ripetuta
in tutti i tempi e che si ripete anche ai di nostri.
Il Giordani, scrivendo al suo giovane amico,
fìiceva riflettere, che da quei fatti si rilevasse gran
parte dell’indole umana e della qualità dei governi.
« La plebe lungamente paziente, terribilmente sde-
« gnata, e nello sdegno generosa, facilmente pla-
« cabile, facilmente ingannabile; i nobili insolenti
« nella sicurezza, vili nella paura, falsi nelle pro-
« messe, smisurati nelle vendette. Le sollevazioni,
« cominciate da necessità e con giustizia, corrotte
« da iniprudenza, terminate senza profitto; quella
« di Lucca poteva finire colla vittoria del popolo. »
Marco Minghetti non rispose; almeno ignoro,
che abbia risposto. So solamente, ch’egli non si
lasciò sedurre; e quell’anno la Giovine Italia sì a-
gitava nelle Calabrie e negli Abruzzi, ed Attilio
’ 19 –
Bandiera si preparava a quell’audace impresa, la
quale fini col martirio suo e dei suoi compagni.
E un altro aneddoto ancora ricorderò.
Un mio amico, il quale vide Marco Minghetti
in Milano nell’inverno 1847, un giorno mi nar-
rava di lui alcune circostanze, le quali rivelarono
fino d’allora quello che poscia egli fu in tutta la
sua vita.
Presso i patrioti, i quali erano allora impazienti
di sdegno e vergognosi d’indugio, il giovane rap-
presentante della manesca Romagna, parve cauto
troppo e riflessivo, tanto erano misurate le sue pa-
role e temperati i suoi giudizi, tanto chiaramente
mostrava che non gli piaceva promettere troppo
di, sé e troppo promettersi degli altri. Insisteva
che si sentissero, si misurassero, si studiassero le
difficoltà.
Doversi guardare bene il pericolo ed affrontarlo
con occhio fermo ed animo sicuro: questo essere
il segreto della vittoria. E purtroppo, bisogna con-
fessarlo, quella virtù mancò in quasi tutti in quel-
l’anno fatale 1848, il quale comiriciò tutto e fini
nulla: miracoloso pei titanici ardimenti e per vit-
torie insperate, le quali non ci diedero né la patria
indipendente, né la libertà.
Ecco le due scuole, che parevano l’antitesi l’una
dell’altra; ecco le due vie, le quali abbiamo attra-
versato divisi per trovarci più tardi uniti nella Mo-
narchia, la quale ci diede l’unità della patria e l’a-
bolizione del potere temporale dei papi (Benissimo t
applausi).
’ 20 –
Le due scuole furono esse entrambe necessarie ?
L’Italia avrebbe potuto vincere i suoi nemici e si
sarebbe potuta costituire in unità di Stato con l’au-
dacia di una sola di coteste scuole e senza la pru-
denza dell’altra? (JBent! Segni di approvazioni).
Guardando l’Italia, quale oggi è, al punto in cui l’ab-
biamo condotta, non sapremnio renderci conto del-
l’opera nostra senza una estimazione equanime dei
fatti memorabili, che si sono svolti negli ultimi 40 anni.
Di tutti quei fatti noi contemporanei, massime
se ne siamo stati gli attori, non potremmo essere
giudici imparziali. Nulladimeno coloro, che ver-
ranno dopo di noi, dovranno sicuramente affermare,
che le cose non potevano procedere diversamente;
■ e che se diversamente fossero procedute, forse non
saremmo riusciti. .
Alla nostra generazione si erano presentati due
problemi a risolvere: la costituzione della nazione;
la conquista della libertà.
Noi avevamo sette principi, riconosciuti ed in- ,
chiodati nella Penisola, col trattato del 1 815. Fatta
la scelta del più audace e del solo italiano, resta-
vano gli altri; e fra questi l’Imperatore ed il Papa.
L’Imperatore aveva base al di là delle Alpi, e
con le sue alleanze e con le sue armi, pesava mo-
ralmente e materialmente sul nostro paese.
Il Papa, quantunque signore assoluto di un pic-
colo Stato, aveva dominio religioso su 200 milioni
di credenti; e qualora l’avesse voluto, avrebbe avuto
l’ausilio delle baionette dei grandi Stati cattolici.
’ 21 –
Aggiungete signori, che l’ingresso dell’Italia nella
famiglia delle Nazioni, non era visto con simpatia
dalle altre potenze.
L’immagine di Roma era pur sempre viva nella
mente degli stranieri. Essi non avevano dimenti-
cato, che anche schiavi, noi avevamo saputo con-
servare il primato civile nel mondo. Il nostro ri-
sorgimento era temuto, come il possibile ritomo
ad una grandezza e ad una potenza, le quali ave-
vano lasciato profonde v-estigia sulla terra!
Né questo solo. Il pensiero di una rivoluzione
italiana, doveva creare gravi preccupazioni e fiere ni-
micizie presso gli altri governi. La rivoluzione in
Italia avrebbe potuto essere un esempio, ed anche
un ausilio per gli altri popoli. Tutto ciò dovette
esser soggetto di severe meditazioni in coloro – e
furono molti – la cui prudenza giudicammo debo-
lezza, e forse peggio.
Sarebbe opera lunga, signori, se volessi esplicarvi
il modo come fu sciolto il problema nazionale,
perchè dovrei farvi la storia della rivoluzione ita-
liana dal 184^ al 1870. Il primo atto della grande
epopea fu l’esaltazione di Pio IX al pontificato catto-
tico; l’ultimo, la rivendicazione di Roma, capitale
d’Italia. In mezzo a questi due estremi stanno l’e-
popea popolare del 1848, la guerra generosa di
Carlo Alberto, i tradimenti, le sconfitte, le delu-
sioni, il ritomo degli stranieri, la servitù più vio-
lenta di prima, ma meno duratura.
Spinti i popoli a più fortunate riscosse con la
’ 22 –
guerra del 1859, succedettero come conseguenze la
liberazione dei Ducati e della Romagna, la spedi-
zione dei Mille, l’annessione delle Marche e del-
l’Umbria, la proclamazione del Regno d’Italia. Ul-
tima serie dei fatti memorabili, coi quali fu com-
piuta l’indipendenza nazionale : la partenza degli
Austriaci dal Veneto e dei Francesi da Roma.
L’opera della emancipazione nazionale fu cosi
complessa, che difficilmente vi si potrebbe distin-
guere la parte presa da noi, e la parte presa dagli
uomini che impropriamente furono detti moderati.
Nella Lombardia, nell’Emilia, in Sicilia, nel Na-
politano e’ inseguivamo e spesso ci confondevamo
(JBenisiitnof).
Al 1848 l’insurrezione di Palermo ingenerò il
regime parlamentare; l’insurrezione di Milano spinse
Carlo Alberto a passare il Ticino. Dopo il 1859
senza la spedizione dei Mille non si sarebbe avuta
quella delle Marche e dell’Umbria, senza Garibaldi
l’onnipotenza di Cavour, senza la catastrofe di Men-
tana non sarebbe stata possibile al 1870 la riven-
dicazione di Roma (Bctìissimof).
^ Ed ora, signori, una domanda, la quale discende
spontanea e necessaria dalle premesse. Quale fu la
parte presa da Marco Minghetti nella soluzione del
problema nazionale?
Marco Minghetti vi ebbe una gran parte. Del
partito, nel quale militò, egli fu uno dei più so-
lerti ed operosi, quantunque non sempre apparisse
che lo fosse stato.
- 23 -
Dico ciò dopo avere estimato le cose della sua
vita in tutto il loro complesso. Imperocché credo
incivile il metodo di coloro i quali giudicano i fatti
singoli di un uomo, separatamente, senza vederne
l’ordine logico ed apprezzarli nell’insieme.
Egli fu di coloro i quali credettero in Pio IX. E
chi non gli credette? Tutti ebbero fede in quel-
l’uomo singolare; tutti ritenevano, che esso era
il Pontefice profetato dal Gioberti, invocato dal
Giusti (^Bravai), Lo stesso Mazzini nel settembre
1847, scrivendo da Londra a Pio IX, sperò che
l’Italia avrebbe potuto risorgere per opera di lui.
Marco Minghetti si tolse subito d’inganno, quando
il 29 aprile 1848 parti dal Vaticano la parola
che malediva la guerra di redenzione. E allora i
suoi sguardi si rivolsero alla vera stella d’Italia, a
casa Savoia, e segui il principe magnanimo, il quale
due volte scese in campo per cacciare lo straniero
dalla penisola. Ed intravide fin d’allora la forma-
zione di un gran Regno nel settentrione della pe-
nisola, baluardo perpetuo della nostra indipendenza
(Bravo! applausi!).
Né disperò dopo i disastri. Nel decennio che
segui, quando le tirannidi instaurate, con l’ausilio
della doppia occupazione straniera, divennero più
violente e desolarono la penisola con gli esilii e
le fucilazioni, egli maturò accanto al conte di Cavour
l’opera della grande rivendicazione italiana, alla
quale assistemmo nel 1859 e nel i8^o. Proclamato il
Regno d’Italia, e più volte ministro, la sua mente
si rivolse a tutte le combinazioni diplomatiche e
’ 24 –
militari, mercè cui Roma ed il Veneto, avrebbero
potuto esser liberate.
Era suo pensiero, che la partenza dei francesi
avrebbe dovuto precedere quella degli austriaci.
Cotesto pensiero lo sedusse talmente da aver cre-
duto un grande atto di patriotismo la stipulazione
della Convenzione di settembre. Egli era convinto
che, partiti i francesi d’Italia, essi ci avrebbero aiu-
tati perchè se ne andassero anche gli austriaci.
Preparò fino dal 18^4 la nostra alleanza con la
Prussia che ci valse la liberazione del Veneto.
Quando al 186^9 e al 1870 si trattò di un’alleanza
con l’Austria e la Francia per tutela dei rispettivi
territori, egli pose a condizione lo sgombero dei
francesi da Roma, il Tirolo col Trentino alla pe-
nisola (^Applausi vivissimi).
L’astro napoleonico tramontò e quell’alleanza
non fu possibile.
^ Marco Minghetti era a Vienna ambasciatore del-
l’Italia, quando scoppiò la guerra del 1870, e con
lettere private e con note ai nostri ministri, scri-
veva e insisteva perchè avessero preso possesso di
Roma. In una sua lettera del 14 settembre 1870,
noi troviamo queste precise parole: « Il mio av-
viso è di andare a Roma, subito, ad ogni costo
(Sensaxionty applausi) ».
Mi parrebbe superfluo dopo ciò parlarvi della
sua arte di governo. La riassumerò in brevissimi
tratti.
Amò la libertà quanto altri mai. I suoi timori.
- 25’
che potesse essere offesa, partivano da sane con-
vinzioni e non da spirito di reazione.
Ministro, volle una finanza forte e, se non riusci
sempre in tutti i suoi proponimenti, non gli fecero
difetto né la mente, né la scienza, né il lavoro arduo
e pertinace, ma piuttosto ne furono causa le con-
dizioni speciali d’Italia, la quale, uscita da sette
governi locali, aveva abitudini che non potevano
mutarsi in un giorno, ed anche esigenze legittime,
le quali non potevano essere facilmente soddisfatte
(^Benissimo [).
suo il disegno dì legge per Tordinamehto dello
Stato in regioni. Parve pericoloso, quando fu pre-
sentato, e fu spento dai pregiudizi onde eravamo
invasi per la febbre ’dell’unità nazionale di recente
conquistata. Forse le regioni avrebbero curato il
malessere locale dei Comuni e, togliendo molti uffici
al Parlamento, avrebbero reso meno impuro l’aere,
che al presente vizia il Governo centrale (^Bravo /).
Cotesto ordinamento in regioni tormenta la mente
degli uomini di Stato inglesi. Chi sa che l’Italia
non sia costretta un giorno a riprenderlo in esame,
e che cotesto ordinamento non debba essere l’ul-
tima parola per l’organizzazione della nostra am-
ministrazione e della nostra politica interna!
Cessate le difficili prove per la liberazione del
territorio nazionale, posso affermare, che nella po-
litica interna ci divise il tempo ; nella politica estera
ebbimo molti punti di contatto, e spesso fummo
d’accordo.
Nelle riforme politiche era cauto, prudente, non
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voleva correre, ma non voleva fermarsi; e soprat-
tutto voleva, che maturassero sotto l’incudine della
pubblica opinione, prima che si convertissero in
legge; ma non rifiutava neanche le statutarie.
Voleva piena la libertà religiosa, e su questo ar-
gomento si era esplicato la prijna volta con un suo
scritto fino dal 1855, e si pronunziò nettamente
poscia e più di una volta in Parlamento.
Voleva e patrocinò in certi casi l’alleanza con le
potenze centrali nell’interesse della pace europea;
e nel 1882 fu il solo fra gli uomini di parte sua
che abbia voluto, come me, che l’Italia fosse in-
tervenuta con l’Inghilterra per la pacificazione ed
il riordinamento dell’Egitto.
Ed ora, signori, è necessario io vi parli del let-
terato e dell’economista; e che io lo faccia con la
stessa brevità usata finora, intrattenendovi del libro
suo che io ritengo di maggiore importanza.
Il libro del Minghetti della Economia pubblica e delle
sue attinente con la morale e col diritto, è di quelli
che sopravvivono all’autore ed alla generazione
che lo ha giudicato. Molte altre opefe egli pub-
blicò, ed alcune di gran pregi’o letterario, e di gran
valore estetico, come le geniali memorie sui mae-
stri e sugli scolari di Raffaello, dove diede prova di
uno squisito buon gusto e di una vasta erudizione.
Ma intorno al volume magistrale sulla economia
pubblica potranno attamente aggrupparsi tutti gli
altri suoi studi sociali.
In quel libro mirabilmente riassuntivo, non v’è
questione alcuna, fra le moltissime discusse in que-
sto secolo, che altri volle forse chiamare per an-
tifrasi il secolo economico, la quale non sia stata
al suo giusto luogo o trattata o accennata. #
Né mi distoglie da questo giudizio il fatto che
l’autore fino d^lla prima edizione, avesse confessato
che molte cose avrebbe voluto aggiungere, e molte
più sarebbero da aggiungere dopo 30 anni, nei quali
le scienze sociali mutarono indirizzo e linguaggio.
Certo il sopradominio delle teorie filosofiche ed
atomistiche, nell’antropologia e nella storia, legitti-
mando la lotta per l’esistenza, che spiega come le
razze animali più altamente dotate e più forti deb-
bano di necessità sostituirsi alle razze deboli, ha
finito per creare una filosofia saturnica, secondo la
quale, se i padri non divorano i figli, i figli divo-
rano i padri.
Codeste cose erano state dette, ripetute e con-
futate più volte, mercè quell’altra filosofia che ri-
conosce negl’ istinti umani una forza creatrice, la
quale non si rassegna alla brutalità della natura fi-
sica.
Il libro del Minghetti è una protesta serena e
dimostrativa contro le dottrine meccaniche degli
economisti, i quali si vantano ortodossi e riducono
tutte le quistioni economiche ad equazioni forzate;
ed in pari tempo contro le impazienze del socia-
lismo, il quale, invocando l’idea alla società, ne
disconosce e ne turba i naturali processi di evo-
luzione. Basta rileggere le brevi e perspicue pa-
gine, in cui l’autore tratta della genesi dei valori
- 28 «
e dei prezzi, della rendita netta, e soprattutto del
salario, il perno della dottrina sulla ripartizione
della ricchezza, per vedere che se molto si può e
si deve aggiungere, non v’è nulla da cancellare.
Dopo le cose dette, permettetemi, o signore e si-
gnori, che a conclusione del mio discorso, io vi
dia la sintesi, e vi esprima un giudizio sull’uomo,
del quale ho ragionato.
Adesso che la lunga vita del patriota si è chiusa,
e possiamo vederne tutte le fasi nella loro succes-
sione e nella loro ultima espressione, noi possiamo
afFemiare che in Marco M inghetti erano quelle
virtù, che, pochi in lui vivo, erano inclinati a rico-
noscere. Il roseo, l’artistico, TafFabile, il discorsivo,
l’accomodevole, il duttile Minghetti, era un carat-
tere intero, una forza indeclinabile, una mano di
ferro sotto un guanto di velluto (^Applausi).
Voi lo vedete fino dalla prima gioventù, accolto
nella Corte pontificia, allora ammirata e glorificata
da tutto il mondo, ed egli non se ne lascia sedurre,
né sviare di un giorno dallo scopo che voleva rag-
giungere.
Marco Minghetti, dopo l’enciclica dell’apostasia,
si dimette da ministro, corre al campo di Carlo
Alberto, vi sta sino alla fine della guerra, né più
torna a Roma se non per domandare la punizione
dell’assassinio di Pellegrino Rossi. In mezzo al
fluttuare vertiginoso delle opinioni ed al variare
delle fortune, egli sapeva e voleva tirar dritto al-
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Tultima mèta. I fatti, come vedete, valevano più
delle parole, che è proprio il contrario di quello
che moltissimi dicevano di lui.
Ne basta! Saputo nel marzo 1849, che si riapri-
vano le ostilità contro l’Austria, ritorna sotto le
bandiere del Re, assiste alla rovinosa sconfitta del-
l’esercito sardo, ed in mezzo al turbinio gene-
rale delle calunnie e dei sospetti, egli non accusa,
non si difende, non si scoraggia, non diffida del
Piemonte e di quella Dinastia reale allora consa-
crata agli occhi suoi dalla sventura (^Applausi).
Voi lo vedete nel 1864, in un momento supremo
della vita nazionale, sfidare l’impopolarità preve-
duta, inevitabile, irresistibile e sottoporsi ad una
condanna, a cui non gli era dato allora contrap-
porre alcuna difesa.
Voi lo vedete negli ultimi anni sopportare la
lunga e conscia agonia con uno stoicismo sorri-
dente. Lo vedete col pallore della morte in viso
discutere tranquillo, eloquente i più astrusi problemi
della pubblica amministrazione (Bravo), Lo vedete
infine concludere la vita con un atto di dignitosa
modestia ed invocare sulla tomba il premio del si-
lenzio (Benissimol n^lpplausi).
E un altro aspetto di questa nobilissima vita è l’equi-
librio, è l’istinto di un armonico contemperamento
dell’azione, degli studi, degli affetti, delle parole.
Solevano i nostri antichi, con quel loro linguag-
gio scultorio, dire che la più forte cosa del mondo
è la misura. E questa forza cercava e sentiva Marco
Minghetti.
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Dissi in principio quello che egli fosse quale
oratore, e non vi dispiacerà che io ripeta che, par-
lando, Marco Minghetti non passava mai il segno,
non si lasciava attrarre dall’abbondanza delle pa-
role, né dalla seduzione delle idee oltre la mèta
ch’ei voleva toccare. E le frasi, che gli correvano
sulle labbra facili, spigliate, colorite, non cercavano
mai barbaglio d’immagini, né scattavano a petu-
lanza di passioni. Ond’é che il suo argomento non
sentiva mai ombra di artificiosità retorica, sebbene
lasciasse negli ascoltatori un senso di estetica pia-
cevolezza. (^Benissimo!).
Ed anche nei suoi scritti si riscontra codesta nota
di misura, di italianità, e vorrei dire di classicità –
se la parola fosse usabile, e l’idea non fosse impor-
tuna – che consiste in quella scelta intonazione ed
in quella temperanza efficace, cosi difficile a conse-
guire e che, conseguita, par tanto semplice e naturale,
e per cui non si dice se non quello che è necessario
e che va dritto allo scopo. Imperocché l’eleganza del-
l’oratore e dello scrittore mi pare della stessa natura
dell’eleganza, che i matematici trovano in quelle
dimostrazioni, le quali, per la via più breve e spesso
per la via insolita, riescono alla conclusione.
Tale é l’uomo che abbiamo perduto, e non esa-
gero affermando, che egli può essere additato come
esempio a tutti i partiti. (^Fivi e prolunf^ati applausi).
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