Alessandro Piperno, Corriere della Sera 30/09/2009, 30 settembre 2009
ECCO PERCHE’ ALBERTO SEMBRAVA A TUTTI UN PERFETTO COLPEVOLE
Mi chiedo se ciò che viene corrivamente definito «innocentismo» non celi una leale seppur complicata aspirazione umanista. Lo so, per molti l’innocentismo è un moto dell’animo tipico di individui privi di struttura e di spina dorsale; la malattia dostoevskiana di chi riesce a identificarsi con l’assassino e non con la vittima, o l’incubo kafkiano di chi teme di essere incastrato da un momento all’altro per un reato non commesso. Insomma qualcosa che rischia di diventare, nel migliore dei casi pietistico lassismo, e nel peggiore posa estetizzante. Tanto più di questi tempi in cui il più prelibato divertissement dei miei connazionali sembra consistere nello snidare criminali, leggere intercettazioni, spulciare verbali, costruire ben documentate cattedrali del sospetto. Ma che posso farci se tale demagogico esercizio mi appare così rivoltante? E se un moto interiore che non ha niente a che fare con il sentimentalismo mi spinge sempre a ipotizzare, di primo acchito, l’innocenza di un mio simile?
In questi anni, da che Chiara Poggi è stata trovata morta e il suo ragazzo Alberto Stasi accusato di averla assassinata, è la terza volta che mi capita di chiosare gli ultimi sviluppi del «caso Garlasco». Constato che i due precedenti pezzi erano animati da uno spirito dissennatamente innocentista, cui la perizia super partes dell’altro giorno sembra aver dato retroattivamente ragione. Certo, si tratta di una medaglia di latta che non ha nessun senso esibire. Più interessante mi sembra il fatto che ancora una volta la mia attenzione si concentri su Alberto Stasi. Sulla storia che lo riguarda che, qualora lui fosse innocente, mi parrebbe il più perfetto e paradigmatico tra gli incubi contemporanei.
Mi spiego. A chi è accaduto di vedere una propria foto sul giornale sa quanto tale esperienza sia straniante. La verità è che quella foto ti parla di tutto fuorché di te stesso. Tanto che certe volte hai il sospetto che sia un surrogato, un apocrifo, un’impostura bell’e buona creata ad arte per screditarti. Non c’è niente di più penoso della discrasia tra il pensiero intimamente affettuoso che nutri per la tua irrilevante personcina e quella specie di essere disgustoso (quel Mr Hide) catturato dalla foto ora riprodotta, senza il tuo consenso e senza alcun ritegno, in centinaia di migliaia di esemplari. Mi chiedo se Alberto Stasi, frattanto, abbia fatto il callo alle sue mille foto apparse in questi due anni sui giornali. Nel qual caso a quest’ora saprà che non c’è centimetro quadrato del suo corpo né impercettibile dettaglio del suo contegno che non parli di colpevolezza: l’incarnato diafano, la sobrietà dei lineamenti, la sfuggente pudicizia, tutto lo rende l’interprete ideale del ruolo di Stavroghin in una eventuale trasposizione cinematografica de I demoni di Dostoevskij. Eppure c’è la possibilità che Stasi, a dispetto delle più promettenti apparenze, sia semplicemente innocente.
A quanto pare, oltre al suo corpo, al suo contegno e a certe bieche predilezioni sessuali non c’è indizio della sua colpevolezza. Ed ecco l’elemento che, al postutto, più mi agghiaccia: tutto nella nostra vita (tutto quello che facciamo e non sappiamo di fare, tutto quello che siamo e non sappiamo di essere) può offrire la futura prova e il futuro movente della nostra colpevolezza in un crimine che non abbiamo ancora commesso e che forse mai commetteremo.