Tonia Mastrobuoni, il Riformista 2/10/2009, 2 ottobre 2009
IL LUNEDI’ NERO DI HONECKER
«Non verseremo una lacrima per loro». La mattina del 2 ottobre, per molti tedeschi orientali la lettura dell’organo ufficiale del partito socialista, il Neues Deutschland, è una doccia fredda. Mentre i treni con i rifugiati tedeschi dell’ambasciata di Praga continuano ad attraversare la Ddr verso la Baviera e la protesta monta in molte città del paese, Erich Honecker scrive di suo pugno un commento pubblicato dal "quotidiano unico" che non lascia dubbi sull’irrigidimento del regime e accresce i timori di una "soluzione cinese", di una brutale repressione degli oppositori, sulla falsariga della Tienanmen.
Una paura alimentata anche da un discorso tenuto quel giorno da Egon Krenz, dirigente della Sed e delfino del dittatore, che ha già descritto la dura reazione cinese di giugno con parole di ammirazione. Ma per Honecker l’espatrio dei rifugiati nell’ambasciata di Praga, concesso a denti stretti, viene definito grottescamente un «atto umanitario». Il dittatore accusa l’Occidente di aver alimentato una psicosi che avrebbe indotto le migliaia di rifugiati a «tradire la loro patria». Che avrebbero «preso a calci i valori morali». Dunque, niente piagnistei, per chi è fuggito.
Il commento di Honecker sul Neues Deutschland è passato alla storia, ma in realtà la campagna di stampa contro i tedeschi in fuga non è cominciata quel giorno. Va avanti da settimane. Il culmine è stata l’intervista a una presunta vittima di una "tratta" di tedeschi orientali, organizzata da "professionisti" della Germania federale. Un certo Hartmut F. racconta il 19 settembre al quotidiano della gioventù socialista Junge Welt, di essere stato narcotizzato con sigarette al mentolo in Ungheria e rapito in Austria. «Mi sono sentito vittima di rapitori e criminali», commenta la propria sfortunata vicenda. E, come riporta in quei giorni il settimanale della Germania Ovest Die Zeit, sul quotidiano preferito di Honecker compaiono a raffica inchieste scottanti sui drammi del capitalismo tedesco: penuria abitativa, piaga dei barboni, dei drogati e dei neonazisti, disoccupazione, tratta dei bambini, fascismo («di fatto i funzionari di Bonn - scrive il Neues Deutschland - portano avanti l’operato delle SS»).
Ma quel 2 ottobre è un lunedì. E il pensiero dei dirigenti del regime non è rivolto ai treni o ai barboni di Bonn. Quel giorno gli occhi della Sed e della Stasi sono puntati con ansia a Lipsia. La perla del Settecento tedesco, la patria di Johann Sebastian Bach, è diventata da un mese, ogni lunedì, il luogo di appuntamento di un’ondata crescente di oppositori. La Montagsdemonstrationen, le manifestazioni del lunedì, sono nate un mese prima, il 4 settembre, dopo la tradizionale "messa della pace" nella Nikolaikirche. Molte chiese della Ddr sono da anni vere e proprie zone franche di discussione, fucina di alcuni importanti gruppi di opposizione degli anni ’80. E le cinque di pomeriggio, l’orario della "messa della pace", è un orario perfetto da molti punti di vista.
Primo, chi vuole partecipare, può farlo dopo l’orario di lavoro. Secondo, chi si intrattiene sul sagrato o nei paraggi della chiesa per prepararsi alla manifestazione, può farlo senza dare troppo dell’occhio, facendo finta di aggirarsi per i negozi ancora aperti. Terzo, quell’orario si rivela ideale per garantire alle manifestazioni - e alla loro brutale repressione - un’eco sui media internazionali. C’è tempo sufficiente per filmare o fotografare le proteste e le reazioni della polizia e contrabbandare le immagini fuori da Lipsia - bandita ai cronisti occidentali - e consegnarle alle televisioni e ai giornali dell’Ovest.
Quel pomeriggio, mentre diecimila persone - il numero più alto dall’inizio delle manifestazioni - affluiscono lentamente attorno alla grande chiesa di San Nicola, il sacerdote Klaus Kaden parla chiaro: «adesso dobbiamo continuare a mantenere saldo il cuore, nella dialettica con l’avversario politico». E poco più in là, nella Chiesa riformata, padre Bernhard Venzke grida ai fedeli che «è arrivato il tempo di raccogliere i frutti dei nostri raccolti». Fuori, agenti della Stasi e poliziotti in tenuta antisommossa, armati fino ai denti, accompagnati da molti cani, attendono la fine della cerimonia.
La tensione, alla fine della messa, è alle stelle. Gli oppositori riuniti nel centro sono lievitati enormemente, rispetto ai lunedì di settembre: le forze dell’ordine non riescono a contenerli. Il flusso della manifestazione è inarrestabile e travolge i blocchi della polizia. Ma quando una parte del cordone si spezza per ritrovarsi davanti a un’altra chiesa, la Thomaskirche, la chiesa di San Tommaso, gli agenti entrano in azione picchiando brutalmente i manifestanti con i manganelli e aizzandogli contro i cani. Molti finiscono in ospedale, altri vengono arrestati. Ma, come racconta uno dei più sacerdoti dell’opposizione, Erhart Neubert, in un magnifico libro che rievoca gli avvenimenti dell’89, molti poliziotti erano combattuti. «Non avevano a che fare con criminali e elementi asociali, come gli era stato inculcato, ma con persone simili a loro, cittadini, lavoratori, dipendenti. Alcuni manifestanti cominciarono a parlare con loro. Alcuni, giovani poliziotti cominciarono a piangere, quelli più anziani si tirarono indietro».
Il corteo sfila intonando l’Internazionale e uno dei slogan diventati più famsoi, «Noi siamo il popolo». Davanti all’edificio della Stasi, i manifestanti urlano «liberate i prigionieri», gli arrestati delle manifestazioni precedenti, condannati a mesi di carcere. E dinanzi ai cordoni della polizia e i loro manganelli sfoderati, gridano «no alla violenza», «no alla Stasi». Ma soprattutto, «no a un’altra Cina».