Claudio Gallo, La stampa 2/10/2009, 2 ottobre 2009
FILOSOFIA DEL LANCIO DELLA SCARPA
Dominique Strauss-Kahn in camicia bianca e cravatta scura, i capelli candidi, parla sul palco. Un ragazzo con la barba nera corre giù dalla scala dell’auditorium gridando slogan contro la mondializzazione. Ma che fa? Sfodera una scarpa, la scaglia contro il direttore del Fondo monetario internazionale. Il proiettile no-global finisce sulla testa di un ragazzo delle prime file. Tiro fallito. Strauss-Kahn la prende bene: «Che? Una scarpa? Non è esattamente carino farlo». Un nugolo di braccia afferra il lanciatore che viene trascinato via poco gentilmente. Accadeva ieri mattina, all’università di Bilgi, Istanbul.
Qualche mese fa a Gand, in Belgio, alla riunione degli azionisti della banca belgo-olandese Fortis, uno di quei colossi d’argilla che i governi corrono salvare con i soldi dei contribuenti, il presidente Jozef De Mey, capelli biondo-grigi, faccia larga, pelle rosata che trasuda colesterolo, scuote la testa. In aula è esplosa la protesta. Parapiglia, fischi e cori da stadio. Qualcuno in giacca e cravatta lancia una grossa scarpa che vola mezzo metro sopra il presidente. De Mey, il faccione sui megaschermi, fissa il lanciatore con gli occhi piccoli come bottoni e sibila un paio di volte: «Je vous demande de sortir», fuori prego.
I media hanno decretato il successo del tiro della tomaia lo scorso dicembre, quando il giornalista iracheno Muntazer al Zaidi, 30 anni, lanciò le scarpe a Bush, diventando un eroe delle piazze musulmane al non modico prezzo di un soggiorno nelle spaventose galere di Baghdad (è stato rilasciato qualche giorno fa). Un gesto tutto compreso nella cultura araba, che giudica i piedi una cosa impura. «Ibn al kundara», si urla ai tifosi delle squadre rivali al Cairo o a Beirut: «figlio d’una scarpa». Eppure il fatto che da allora le calzature non hanno smesso di volare contro l’ingiustizia, come la locomotiva di Guccini, ai quattro angoli della Terra, deve far riflettere: certo, la potenza dell’emulazione nel villaggio globale. Ma ci deve essere qualcosa di più profondo, che viene da più lontano.
Se, in alcuni casi, il dissenso sotto forma di scarpata muove lo smagato animo post-occidentale è perché appartiene alle nostre radici. Gettare i calzari addosso ai nemici è un gesto radicato nella cultura ebraico-cristiano-musulmana. In Salmi 60,10 si legge: «Moab mi serve da catino per lavarmi, su Edom getto il mio calzare». Immagine o gesto, sono parole che gridano il disprezzo degli Israeliti per i discendenti di Esaù. Fast Forward pigiato, e siamo in piena era elisabettiana (tra XVI e XVII secolo): William Kempe, amicone (almeno all’inizio) di Shakespeare, insuperabile buffone, in Romeo e Giulietta superbo Pietro il servitore, fa sganasciare il pubblico gettando le scarpe addosso agli attori tra i cachinni della plebaglia. Allora doveva fare l’effetto delle torte in faccia oggi. La gente non si stancava mai di vederlo.
Pochi sapranno, anche perché le telecamere sono state oscurate, se gli inglesi nell’aula magna di Cambridge, il 2 febbraio, abbiano ancora riso a vedere un tizio col pizzo che tirava una scarpa al premier cinese Wen Jiabao.
Torniamo al 7 aprile scorso. Il ministro dell’Interno indiano Palaniappan Chidambaram, in un candido kurta pijama bianco, sta tenendo una conferenza a Delhi. Dalla prima fila di sedie si alza Jarnail Singh, casacca verde, pantaloni chiari, un sikh dal turbante bianco che lavora per un giornale in Hindi tra i più diffusi del Paese, il Dainik Jagran. Tira una scarpaccia simil-Nike color avorio contro il ministro. Onestamente, è un tiro fiacco, eseguito dal basso in alto. Paraboleggia come un colpo di mortaio e cade al di là della spalla destra di Chidambaram. Due uomini della sicurezza placcano il reporter che si fa portare via mestamente. Lo «Shiromani Akali Dal», un partito Sikh, offre 4 mila dollari di ricompensa al lanciatore. Sul web si moltiplicano le offerte per comprare il suo «missile del malcontento». Pochi giorni dopo, Rajbal Singh Saharan, un maestro in pensione di 64 anni, getta il sandalo polveroso a un parlamentare del Congresso, il partito di Sonia Gandhi. Le telecamere lo braccano: «In realtà - dice - volevo colpire l’intero sistema politico». Simbolicamente il lancio avviene a Kurukshetra, nel Haryana, il luogo della mitica battaglia del Mahabharata da cui sarebbe nata l’India.
Non bisogna andare troppo indietro nella storia indiana, come da noi, per imbattersi in scarpe volanti. Al congresso del partito del Congresso, a Surat nel 1907, si affrontavano i moderati e gli estremisti come Bal Gangadhar Tilak, quelli che allora volevano l’indipendenza dagli inglesi. Quando Tilak prese la parola, il dibattito s’infiammò pericolosamente. Raccontò Henry W. Nevison sul Manchester Guardian che «all’improvviso qualcosa volò nell’aria, una scarpa, una scarpa Mahratta, di pelle rossiccia, appuntita e con i chiodi di piombo. Colpì Surendra Nath Banerjee in piena guancia». Fu il caos, scoppiò un’enorme rissa con pugni, calci e castagnate di lathi, il lungo bastone usato ancora oggi dalla polizia indiana.
Il surplus di offesa della scarpa è dovuto (come in molte altre culture) al fatto che fascia una delle parti più impure del corpo, i piedi. Un’idea che riverberò nell’ossessione dell’hidalgo spagnolo per le scarpe lucide. In India la sconcezza del piede compare già nel mito della creazione del mondo del Rig Veda, nel secondo millennio avanti Cristo. Nel Purusa Sukta si narra il sacrificio dell’Uomo Cosmico: dalla bocca nascono i sacerdoti (i brahmani), dalle braccia i guerrieri, dalle cosce gli agricoltori, e i servi, gli schiavi, appunto, dai piedi.
Il fatto che in un’era di democrazia (quasi) globale gli oppressi abbiano fatto della scarpa un proiettile contro i tiranni e i potenti ha il sapore di un sovvertimento della cosmologia originale e proprio il sovvertimento di un mito è l’atto con cui se ne crea uno nuovo. Benvenuti nell’Era della Scarpa.