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 2009  ottobre 02 Venerdì calendario

Se per le pmi il credito è come il petrolio nel ’73, sarà una lunga austerity - «Out of oil»: così avvertivano i cartelli appesi ai distributori di benzina in America allo scoppio della crisi petrolifera del ’73

Se per le pmi il credito è come il petrolio nel ’73, sarà una lunga austerity - «Out of oil»: così avvertivano i cartelli appesi ai distributori di benzina in America allo scoppio della crisi petrolifera del ’73. L’interruzione effettiva degli approvvigionamenti fu breve ed improvvisa, ma lo shock ebbe effetti duraturi. Da allora abbiamo una consapevolezza nuova: la disponibilità di petrolio non è scontata e il suo costo influisce pesantemente sulla produzione e sulla competitività dei Paesi. In Italia, dove le misure di emergenza furono drastiche (fu anticipato di mezz’ora il telegiornale delle 20,30, abolito l’ultimo spettacolo dei cinema e ridotta l’illuminazione pubblica accendendo i lampioni uno sì ed uno no), per mettere a fuoco i problemi strutturali occorsero quattro anni. Finalmente ci si accorse che c’era un problema di riconversione industriale e di ristrutturazione produttiva. Occorreva un duplice riposizionamento: l’abbandono dei settori maturi e l’automazione dei processi produttivi per renderli meno costosi. Si doveva consumare meno energia per unità di prodotto e ricercare modi di produzione meno sensibili alla fluttuazione dei prezzi delle fonti di energia importate. Gli obiettivi della politica economica erano due: riequilibrare la bilancia commerciale e ridurre i rischi di inflazione indotta dall’esterno. «Out of credit»: da un anno a questa parte è l’insieme dei flussi di credito mondiali che ha subito lo stesso profilo. All’inizio ci fu una paralisi dei rapporti interbancari, ora c’è una strozzatura nell’approvvigionamento dell’economia reale. Si raziona il credito alle imprese o lo si eroga a prezzi più alti. Mentre il petrolio lo si paga in contanti, il credito lo si ripaga a tempo. Una differenza non da poco, che spiega la particolare prudenza delle banche. Per sostenere le proprie economie reali, ogni governo ha scelto la sua strada. Ma in Italia il flusso di credito non si è riportato ai livelli precedenti. Si tratta di prendere atto che ci penalizza una peculiarità analoga a quella del ’73: la dipendenza dal credito delle imprese è maggiore che nei Paesi concorrenti. Nessuna novità: sappiamo da anni che la produzione italiana gravita su pmi troppo indebitate a breve e poco a medio-lungo termine, e dalla capitalizzazione irrisoria. Il quadro corrisponde allo slogan di «impresa in un giorno!»: una visione fideistica della capacità imprenditoriale, basata su imprese nane che nascono per una sfida di sopravvivenza, scontando basi patrimoniali inconsistenti. Il costo del credito, da noi più alto in ragione del rischio che comporta affidare soggetti così poco patrimonializzati, aumenta i costi di produzione e i prezzi al consumo, rallentando la crescita economica. La bassa patrimonializzazione delle imprese non è colpa delle banche: abbiamo scelto politicamente un modello produttivo pulviscolare, capace di flessibilità e di adattamento. Soprattutto capace di non ingenerare scontri sociali quando ci si ristruttura: tutto si riduce al dramma personale e familiare. una mimetizzazione difficile quando la ristrutturazione avviene nei grandi gruppi, basta vedere quanto sta accadendo in Francia: se si suicida un dipendente di una grande azienda, per via della tensione provocata dai processi di mobilità, la colpa viene addossata al management, con tanto di nomi e foto sui giornali. Quando in Italia si suicida un piccolo imprenditore che non riesce a pagare i debiti, è colpa della crisi. un fatto di cronaca, non un evento di rilievo sociale o politico. Il credito nel 2009 è come il petrolio nel 1973: un fattore produttivo prezioso, la cui disponibilità non è più scontata, come neppure ne sono scontati i costi. Scopriamo ora che il sistema produttivo e l’intera economia dipendono troppo dal credito. Dopo la crisi petrolifera del ’73 definimmo con enorme lentezza il fabbisogno di ristrutturazione, cioè il costo necessario a sostenere la transizione verso modelli produttivi e di consumo compatibili con i nuovi costi energetici. Lo Stato cominciò ad intervenire solo nel 1977, a favore delle grandi industrie, in cui si concentrava il fabbisogno. Oggi c’è bisogno di ristrutturazione finanziaria, soprattutto fra le imprese medie e medio-piccole, che vivono di prestiti a breve. un problema che non è stato oggetto in questi anni di particolari attenzioni: il confronto si è concentrato su altri costi, come il lavoro il e carico fiscale. Ma senza mai porre come condizione per la adozione di politiche favorevoli a tali riduzioni di costo un rafforzamento patrimoniale del sistema produttivo. Anche la politica si è concentrata troppo sui conti economici delle imprese e poco sulla loro struttura patrimoniale. Senza ottenere, purtroppo, neppure i risultati sperati in termini di crescita. Lo sviluppo richiede che si investano capitali, non solo che si riducano i costi. Superata la fase di emergenza sui mercati finanziari, stabilizzate le banche, il confronto deve spostarsi sugli interventi per ridurre la dipendenza dal credito a breve, intervenendo sulla struttura del debito e sulla patrimonializzazione delle imprese. Intanto si apre per tutte le aziende, grandi e piccole, un esercizio straordinario. Di qui a fine anno si producono previsioni per vedere come chiude l’anno in corso e definire il budget del prossimo. La crisi è una grande occasione per togliere tutte le pieghe dai libri societari, se ce ne sono, ripassandole a ferro caldo. Molti valori verranno abbattuti ed emergerà la situazione patrimoniale con cui dovranno fare i conti gli azionisti, il management, il sistema bancario. Sarà definita una base di partenza più certa, in vista del nuovo confronto tra banche e imprese. Prima della fine dell’anno, quindi, non è plausibile attendersi svolte nei rapporti tra banche ed imprese: ciascuno si prepara per il 2010. I capitali che dovrebbero rientrare sotto la protezione del nuovo scudo entreranno in gioco: la partita riguarda imprese, banche, le sfere politiche. Non sarà determinante solo il loro importo, ma piuttosto la modalità di impiego. Speriamo che non venga sprecata un’altra occasione: quando si costituì il fondo di ammortamento del debito pubblico, da alimentare con i proventi delle privatizzazioni, si scelse di annegare nel mare del passato finanziario risorse che dovevano tornare subito alla economia reale, da dove provenivano, sotto forma di nuovi investimenti pubblici. Le ricchezze scudate dovrebbero essere investite nell’economia reale, come i proventi fiscali di questa operazione: è l’obiettivo politico da perseguire. Le aziende lo hanno finalmente capito: non si vive di solo credito. Le banche sono alla ricerca di nuovi capitali per rafforzarsi, le imprese dovranno fare altrettanto. Cambieranno equilibri e geografie economiche, si stabiliranno nuovi accordi tra imprese, che si raccoglieranno a fattor comune per rafforzarsi. Il futuro è già qui. O magari comincia tra quattro anni, se ci fermiamo alle sole misure di emergenza, come si fece dopo la crisi del ’73. Dipende solo da noi.