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 2009  ottobre 01 Giovedì calendario

SCIPIONE BORGHESE, L’ARTE DEL RICATTO PER ACCRESCERE POTERE E COLLEZIONE


Tutt’altro che in disuso, la pratica del nepotismo prende il nome dalla ten­denza dei papi, in certi pe­riodi della storia, a favorire i pro­pri familiari al punto che la nomi­na del Cardinal Nepote era diven­tata quasi una carica istituzionale. Anche Caravaggio ebbe a che fare con un potentissimo Cardinal Ne­pote, quello Scipione Borghese che mise insieme la strepitosa col­lezione d’arte nucleo dell’odierna Galleria Borghese.

Aveva solo ventisei anni quan­do lo zio Camillo Borghese, poco dopo essere stato eletto papa il 16 maggio 1605 con il nome di Paolo V, lo nominò cardinale. Tutte le fonti concordano nell’attribuirgli una cultura mediocre, compensa­ta da una voracità collezionistica che lo indusse ad esercitare anche la prepotenza pur di ottenere le opere d’arte concupite.

Fu forse proprio lui, per esem­pio, a manovrare dietro le quinte per la rimozione della «Madonna della serpe», la grande tela che Ca­ravaggio era finalmente riuscito ad issare sugli altari di San Pietro: con la scusa che il quadro non ave­va decoro, finì, guarda caso, per una cifra irrisoria nella sua colle­zione. Ma il più famigerato gesto d’arbitrio del cardinale fu l’ordine di trafugare dalla chiesa di San Francesco, a Perugia, la pala Ba­glioni dipinta da Raffaello; poi, per tacitare le proteste degli indi­gnati perugini, si degnò di farne eseguire due copie dal Lanfranco e dal Cavalier d’Arpino. Proprio quest’ultimo era stato uno dei pri­mi a offrire lavoro al giovane Cara­vaggio giunto da Milano a Roma senza un quattrino ma, stanco di essere sfruttato, il giovane «ap­prendista » se ne era ben presto andato in malo modo lasciando nella bottega due meravigliosi quadri: il «Bacchino malato» e il «Giovane con canestra di frutta». Ebbene, queste due tele piaceva­no anche al Cardinal Nepote, che per averle pensò di imprigionare e condannare a morte il d’Arpino con il pretesto che era stato trova­to in possesso di una collezione di archibugi. Per uscire da questo incubo, al pittore non restò che pagare una penale di 500 scudi e donare tutti i quadri della sua bot­tega, oltre cento, alla Camera Apo­stolica.

Infine, l’astuto piano fu portato a conclusione con un do­cumento scritto dal pontefice che assegnava i dipinti al nipote Sci­pione.

Poi toccò al Domenichino: il pit­tore bolognese fu imprigionato perché si rifiutò di «cedere» al Cardinal Nepote la tela con «Dia­na e le Ninfe» commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini. E persino il pavido Guido Reni, non sopportando più lo strozzi­naggio dei Borghese, in un sopras­salto di orgoglio se ne tornò nella sua Bologna. Fattagli però intrav­vedere subito la galera, non ci mi­se molto a tornare sui suoi passi. Il fatto è che già dal 1608, il gene­roso zio papa aveva rilasciato al nipote la facoltà di arresta­re i banditi e successiva­mente anche quella di graziare i condannati all’ultimo supplizio.

Nel gennaio 1610, poi, a Scipione Bor­ghese venivano attribui­te le cariche di Gran Peni­tenziere e di Prefetto della Se­gnatura di grazie e giustizia. Pro­prio quelle che tornavano utili a Caravaggio, che da quattro anni era in fuga fra Napoli, Malta e la Sicilia per sfuggire al bando capi­tale. In effetti, la grazia finalmen­te arrivò proprio in quel 1610.