Francesca Bonazzoli, Corriere della sera 1/10/2009, 1 ottobre 2009
SCIPIONE BORGHESE, L’ARTE DEL RICATTO PER ACCRESCERE POTERE E COLLEZIONE
Tutt’altro che in disuso, la pratica del nepotismo prende il nome dalla tendenza dei papi, in certi periodi della storia, a favorire i propri familiari al punto che la nomina del Cardinal Nepote era diventata quasi una carica istituzionale. Anche Caravaggio ebbe a che fare con un potentissimo Cardinal Nepote, quello Scipione Borghese che mise insieme la strepitosa collezione d’arte nucleo dell’odierna Galleria Borghese.
Aveva solo ventisei anni quando lo zio Camillo Borghese, poco dopo essere stato eletto papa il 16 maggio 1605 con il nome di Paolo V, lo nominò cardinale. Tutte le fonti concordano nell’attribuirgli una cultura mediocre, compensata da una voracità collezionistica che lo indusse ad esercitare anche la prepotenza pur di ottenere le opere d’arte concupite.
Fu forse proprio lui, per esempio, a manovrare dietro le quinte per la rimozione della «Madonna della serpe», la grande tela che Caravaggio era finalmente riuscito ad issare sugli altari di San Pietro: con la scusa che il quadro non aveva decoro, finì, guarda caso, per una cifra irrisoria nella sua collezione. Ma il più famigerato gesto d’arbitrio del cardinale fu l’ordine di trafugare dalla chiesa di San Francesco, a Perugia, la pala Baglioni dipinta da Raffaello; poi, per tacitare le proteste degli indignati perugini, si degnò di farne eseguire due copie dal Lanfranco e dal Cavalier d’Arpino. Proprio quest’ultimo era stato uno dei primi a offrire lavoro al giovane Caravaggio giunto da Milano a Roma senza un quattrino ma, stanco di essere sfruttato, il giovane «apprendista » se ne era ben presto andato in malo modo lasciando nella bottega due meravigliosi quadri: il «Bacchino malato» e il «Giovane con canestra di frutta». Ebbene, queste due tele piacevano anche al Cardinal Nepote, che per averle pensò di imprigionare e condannare a morte il d’Arpino con il pretesto che era stato trovato in possesso di una collezione di archibugi. Per uscire da questo incubo, al pittore non restò che pagare una penale di 500 scudi e donare tutti i quadri della sua bottega, oltre cento, alla Camera Apostolica.
Infine, l’astuto piano fu portato a conclusione con un documento scritto dal pontefice che assegnava i dipinti al nipote Scipione.
Poi toccò al Domenichino: il pittore bolognese fu imprigionato perché si rifiutò di «cedere» al Cardinal Nepote la tela con «Diana e le Ninfe» commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini. E persino il pavido Guido Reni, non sopportando più lo strozzinaggio dei Borghese, in un soprassalto di orgoglio se ne tornò nella sua Bologna. Fattagli però intravvedere subito la galera, non ci mise molto a tornare sui suoi passi. Il fatto è che già dal 1608, il generoso zio papa aveva rilasciato al nipote la facoltà di arrestare i banditi e successivamente anche quella di graziare i condannati all’ultimo supplizio.
Nel gennaio 1610, poi, a Scipione Borghese venivano attribuite le cariche di Gran Penitenziere e di Prefetto della Segnatura di grazie e giustizia. Proprio quelle che tornavano utili a Caravaggio, che da quattro anni era in fuga fra Napoli, Malta e la Sicilia per sfuggire al bando capitale. In effetti, la grazia finalmente arrivò proprio in quel 1610.