Tonia Mastrobuoni, il Riformista 30/09/2009, 30 settembre 2009
«IL MURO NON CADDE A BERLINO, MA A PRAGA E IO ERO SU QUELLA FOTO»
Su quel balcone c’era anche l’ambasciatore tedesco in Italia, Michael Steiner. A pochi centimetri dal ministro degli Esteri della Germania ovest, Hans-Dietrich Genscher. «Un’ombra sulla foto», sorride oggi, a distanza di vent’anni.
Allora, il 30 settembre del 1989, le telecamere di tutto il mondo immortalarono l’annuncio dell’emissario del governo Kohl. Alle 18.58 Genscher apparve sul balcone dell’ambasciata tedesca di Praga e informò gli ottomila rifugiati della Germania orientale, ammassati in modo inverosimile da settimane in ogni angolo di Palazzo Lobkowitz, che erano liberi.
«Sono venuto da voi oggi - esordì Genscher con voce tonante - per dirvi che il vostro espatrio…» - ma non finì la frase. Sotto di lui, la folla esplose in un boato. Urla, pianti, applausi. La tensione di settimane si sciolse in un istante, ottomila tedeschi stremati dall’attesa capirono che potevano raggiungere finalmente la Germania ovest, capirono che era finito un incubo. Ma Genscher aveva annunciato solo una parte della notizia. Chi udì il resto, rimase di pietra.
Quel primo istante, racconta Steiner al Riformista, quella mezza frase di Genscher inghiottita dalle urla di felicità dei rifugiati, «è stato il momento più emozionante della mia carriera». Allora era capo ufficio stampa e consigliere politico dell’ambasciatore a Praga. «In quel momento ho sentito un brivido lungo la schiena. Ho capito istintivamente, come se mi avesse attraversato un fulmine, che quella era la fine della DDR. Era una cosa totalmente istintiva, nulla di razionale - me lo ricordò anche mia madre, che mi venne a trovare poco dopo. E da allora sostengo una tesi poco ortodossa. Per me il Muro non è caduto a Berlino, ma in Europa. Più precisamente, il Muro è caduto a Praga, il 30 settembre del 1989».
Da giugno di quell’anno, da quando l’Ungheria aveva aperto la frontiera verso l’Austria nei pressi della cittadina magiara di Sopron, da quando migliaia di tedeschi si erano diretti verso quel buco nella Cortina di ferro per scappare in Occidente o si erano rifugiati nelle ambasciate tedesche in Cecoslovacchia e in Ungheria per chiedere asilo, «il Muro di Berlino era ormai un scheletro, un simulacro. Resistette ancora un po’, divise in due l’Europa ancora fino al 9 novembre, ma in realtà era già una finzione, una mummia. Lo si poteva aggirare».
L’opportunità di oltrepassare la frontiera tra la DDR e la Cecoslovacchia senza bisogno di un visto d’ingresso, fu sfruttato da un’ondata crescente di tedeschi in fuga dal regime di Erich Honecker e desiderosi di raggiungere la Germania occidentale. L’Ostblock, il blocco dei paesi del Patto di Varsavia, cominciava a mostrare le prime, profonde crepe causate dalla perestrojka di Gorbaciov. Decine, poi centinaia, infine migliaia di tedeschi avevano cominciato dall’estate a dirigersi verso la capitale ceca con ogni mezzo (spesso con le famose Trabant, le automobili tipiche della DDR che formarono poi a Praga un vero e proprio cimitero di macchine soprattutto nei pressi di Palazzo Lobkowitz) per chiedere asilo a Bonn. E sono passate alla storia le foto di molti di loro, strattonati o tirati per i piedi dalla polizia ceca mentre cercano di scavalcare il recinto.
Su una di quelle foto c’è anche Steiner che dall’altro lato delle sbarre tentava di aiutare un rifugiato a sfuggire alla presa dei poliziotti. «In più di una occasione, gridando "giù le mani!", quelli mollavano», ricorda. «Una volta corsi addirittura fuori dal cancello, ero letteralmente terrorizzato che la polizia reagisse ma gridati lostesso "lo lasci stare!" e trascinai un ragazzo per il braccio lungo il recinto con il cuore che mi batteva all’impazzata. Un’altra volta avevano ammanettato un ragazzo alle sbarre. Mi avvicinai e abbaiai "liberatelo!" e i poliziotti obbedirono! In quelle occasioni capì molto presto una cosa, compresi cos’era davvero il potere. Compresi che era una cosa puramente psicologica. Che non basta possedere il carrarmato, ma che bisogna avere il potere su chi lo guida e lo arma e spara. Quei poliziotti cechi dell’autunno del 1989, quelle guardie di un paese che si stava sgretolando assieme a tutti i regimi dell’est - la rivoluzione di velluto avvenne a novembre, poco dopo la caduta del Muro - erano più impauriti di me».
All’ambasciata, il giorno che arrivò Genscher, c’erano dunque «ottomila rifugiati», spiega Steiner. Ancora scuote la testa, quando ripensa a quei giorni, come per spazzare via il ricordo di «fatiche immense». Ma furono anche momenti «carichi di emozioni». Dopo tre mesi di flusso ininterrotto di tedeschi orientali «eravamo stravolti dalla stanchezza. Soltanto nel mio ufficio dormivano duecento persone. Avevo fatto mettere dei letti a castello ovunque e le tende in giardino e nel cortile. Ma bisogna considerare che in una struttura pensata per ottanta persone, a fine settembre ne erano accampate più di ottomila. Più che diplomatici, eravamo diventati degli albergatori. Ci occupavamo dalla mattina alla sera di come nutrirli e di come mantenere condizioni igieniche decenti. Il fatto è però che in quei giorni dovevo anche occuparmi dei media. La stampa orientale era molto aggressiva, sosteneva che sfruttavamo i rifugiati per scopi di politica interna. Dunque, camminavamo sul filo del rasoio, dovevamo dimostrare sempre che non li avevamo incoraggiati noi a venire. Ma eravamo anche fermamente intenzionati a non cacciarli. Per farle un esempio di come tentassimo sempre di tenere un profilo bassissimo: per l’annuncio di Genscher avevo chiesto di non accendere troppi fari, di non illuminare troppo il balcone, di non rendere la cosa troppo spettacolare. Ecco perché le immagini di quel momento sono così scure».
A giugno, quando Steiner era arrivato da poco da New York («e pensare che mi avevano mandato dagli Stati Uniti a Praga per farmi stare più tranquillo...»), l’ambasciatore Huber organizzò una grigliata nella sua residenza: una sorta di "passività attiva" fu decisa proprio in quell’occasione. «Ospitavamo già alcune famiglie e alcuni rifugiati nella mansarda di Palazzo Lobkowitz. Huber mi chiese: "lei che ne pensa, Genscher vorrebbe che ci attivassimo per far arrivare i tedeschi dell’Est in ambasciata, o vorrebbe che li lasciassimo fuori?". Io gli risposi, ancora una volta d’istinto, che secondo me Genscher voleva che non facessimo nulla, assolutamente nulla. Che lasciassimo accadere le cose, che la storia prendesse il suo corso. Che accogliessimo tutti, ma senza incoraggiare nessuno». E quella fu la linea adottata dalla diplomazia di Bonn nella capitale boema in quei mesi convulsi.
chiaro anche alle sette del 30 settembre, che in quella situazione di attesa corrosiva, di tensione micidiale, non fu percepita la seconda parte della frase di Genscher. Ma i pochi rifugiati sotto il balcone che riuscirono a sentirla, nonostante l’esplosione di gioia collettiva, le urla e i pianti, rimasero pietrificati. Il ministro degli Esteri del governo Kohl era arrivato il giorno prima da New York. A margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva incassato il via libera per gli ottomila dal suo omologo russo Edward Shevardnaze. Ma il vero osso duro del negoziato non era il ministro di Gorbaciov. Era Erich Honecker. Alla fine, il 29 settembre, l’immarcescibile dittatore della Germania orientale acconsentì telefonicamente a far passare i rifugiati di Praga da est a ovest soltanto perché temeva un danno di immagine in vista delle celebrazioni del 40° anniversario della fondazione della DDR, previste per il 7 ottobre. Ma diede il via libera a denti stretti e a una condizione. Di umiliare i suoi concittadini un’ultima volta.
Honecker accettò di liberare i rifugiati dell’ambasciata a condizione che attraversassero in treno la Germania est, prima di varcare la frontiera per la Repubblica federale. Voleva che gli ottomila vivessero un’ultima angoscia, prima di lasciarsi alle spalle uno dei regimi più oppressivi dell’Est. «Fu quella la seconda parte della frase di Genscher: i rifugiati dovevano attraversare in treno la DDR. Voleva essere un’ultima dimostrazione di forza, ma si rivelò un vero e proprio boomerang per il regime», osserva Steiner.
Il pomeriggio del 30 settembre e la sera, dopo l’annuncio, «vedemmo il ministro Genscher poco e niente. Era sempre al telefono per trattare sui garanti». Il responsabile degli Esteri del governo di Bonn «voleva ottenere da Berlino di poter viaggiare personalmente con i rifugiati». Invece, il regime gli consentì solamente che fossero degli alti funzionari tedeschi ad accompagnare i fuggiaschi. Steiner era tra loro. «E lì successe una cosa incredibile. Attraversando in treno la DDR, capimmo quanto il paese fosse sul punto di esplodere. E quanto poco ne fossero consapevoli Honecker e la dirigenza del partito della SED. Ma intanto, partimmo con i rifugiati che erano letteralmente terrorizzati all’idea di dover passare per il loro paese. Non si fidavano affatto. Quelle furono ore di tortura, per loro. E il fatto è che appena entrammo nella DDR, i treni cominciarono a rallentare». (1. segue)