Alvar Gonzàlez-Palacios, Il Sole 24 Ore 06/09/2009, 6 settembre 2009
GOYA E LO SCHERZO AL RE
Se penso a Carlo IV, Re di Spagna, delle Indie e del Mar Oceano, non ricordo tanto i titoli magniloquenti che gli diede Dio quanto il crudele ritratto di Francisco Goya che troneggia oggi in una delle sale del Prado: ecco il nostro eroe in mezzo alla sua ineffabile famiglia, luccicante come un salmone coperto dell’oro del Messico e dell’argento del Potosì, rilegato in seta mordoré, annoiato, indifferente. La Regina è al suo fianco, non sai se Niobe o Lady Macbeth, certa di un’avvenenza immaginaria, quasi volgare ma regale, figlia di una figlia di Luigi XV e dello zio del Re. Tutti i parenti sembrano inscenare una commedia sinistra o forse esilarante.
Siamo nel 1800: Napoleone detta regole al mondo e fra non molti anni costringerà la Famiglia Spagnola all’esilio, eccezion fatta del grottesco Ferdinando VII che era ancora il giovane erede, il deseado, azzurro come un cielo incostante. Benché questo dipinto (pressoché intrasportabile, tre metri d’altezza per tre e mezzo di larghezza) non fosse presente alla mostra che ha chiuso i battenti giorni fa nel Palazzo Reale di Madrid (Carlos IV mecenas y coleccionista, catalogo a cura di Pilar Benito Garcia, Javier Jordan de Urries, Jose Luis Sancho), esso aleggiava ovunque nelle piccole stanze in cui si era radunato il fior fiore dell’arredamento ai tempi di uno dei protagonisti dell’ancien régime. Una presenza incombente, quella di Goya, geniale e non certo in sintonia con il gusto della corte: come è possibile, mi chiedo da anni, che quegli animali umani, allora indiscussi e padroni di tutto, non abbiano fatto a pezzi la sfilata insolente che avrebbe dovuto raffigurare il trionfo della monarchia? Si è reso conto il Re di quel che Goya voleva dire? La sua tolleranza (ma era tale?) mi sembra ancor più inspiegabile della ferocia del pittore; ma aveva capito?
Carlo IV era ottuso ma non stupido; amava il dettaglio prezioso, la squisitezza, il lusso: il suo cuore di piombo (aveva un cuore?) seguiva la cadenza degli aggettivi più che le regole della grammatica. Secondo figlio di Don Carlo di Borbone, nacque a Napoli nel 1748 e visse in quella capitale fino alla partenza del padre salito al trono di Spagna nel 1759. Suo fratello maggiore, disabile, rimase a Napoli affidato a servi e infermieri assieme al terzo fratello, Ferdinando, diventato ipso facto, a otto anni appena, Re di Napoli e di Sicilia. A Carlo, ormai Principe d’Asturie, spettava un destino più grandioso ma contraddittorio; dovette attendere trent’anni prima di diventare re alla morte di Carlo III. Adolescente, sposa la cugina di Parma e si dà subito a costruire e ad addobbare casitas de campo ad Aranjuez, a El Escorial, a El Pardo, nelle quali trascorreva la maggior parte dell’anno, rimanendo poco a Madrid, per Natale e per Pasqua. Difficile immaginare cliente più ossessionato di oggetti e di arredamento, volendo essere sempre presente a ogni lavoro, diventando artigiano egli stesso. Non esagero: Carlo IV era in grado di intagliare l’avorio e di accomodare molti macchinari, collezionava ogni cosa: quadri e quadretti, vedute di luoghi amati, presepi napoletani e genovesi, bassorilievi d’avorio tratti da antichi modelli di Pompei e di Ercolano che aveva visto da ragazzo. Ancora di più amava gli orologi e ne mise insieme una sterminata collezione, magnifica, ripetitiva ma con alcuni esemplari straordinari sia come macchine sia come opere d’arte. Da re protesse le manifatture di porcellana e di pietre dure del Buen Retiro fondate da Carlo III, un po’ meno quella di Santa Barbara dove si tessevano i celebri tapices, arazzi, sui cartoni di Goya nella sua fase graziosa e maja. Goya era il suo primo pittore ma il Re preferiva i tappeti e i parati agli arazzi: l’artista e il sovrano non poterono ma intendersi del tutto e probabilmente i ritratti di Anton Raphael Mengs (del quale si studiano nel catalogo alcune ottime tele fra cui un capolavoro ritrovato a Parma) erano più affini nella loro algida perfezione al gusto della corte: Mengs come van Dyck e come Batoni raffigurava i suoi modelli da perfetto uomo di mondo, non come essi in realtà erano ma come volevano essere visti.
La bussola di Carlo IV e della Regina Maria Luisa segnava il nord di Parigi: sebbene nati in Italia erano ambedue di inclinazione francese ma la loro era una mania da neofiti, da stranieri, un gusto che ha non poco da spartire con l’affettazione dei principi russi e con l’insistenza ornamentale un po’ da tappezziera (la definizione non è mia ma di Pierre Verlet) della loro cugina Marie Antoinette. Che distingue più di ogni cosa il goût tapissier? Tessuti, ovunque tessuti , sete, lampassi, velluti, al punto che ancora oggi le collezioni tessili spagnole non hanno pari in Europa: decine e decine di parati costosissimi furono commissionati in Spagna, a Valencia, e in Francia, a Lione, tutti di uno sfarzo quasi indiscreto. Non si tratta di nobiltà architettonica ma di fruscio di stoffe e di bagliore d’oro. E di ricami: forse il migliore artefice d’Europa era allora uno spagnolo, il bordador Juan Lopez de Robredo, che rivestì di quadri ad ago, incluse le cornici, intere stanze ad Aranjuez e mise ai piedi dei suoi signori tappeti di seta, ancora sorprendentemente in buono stato (e bene studiati oggi).
Il Re acquistava un po’ ovunque, da Napoli a Parigi, quello che poteva, anzi quasi tutto quello che voleva come, per far un solo esempio, il roboante dessert (o centrotavola) di Luigi Valadier approntato a Roma per il Balì di Breteuil nel 1778 e pagato una fortuna a Parigi qualche anno dopo; un sogno a occhi aperti dell’antica Roma, un trionfo di marmi di colore, di pietre semipreziose, di smalti, di bronzi dorati, templi colonnati e obelischi in miniatura, squisitezze all’antica. Ebbe anche doni degni del suo genio quali il servizio di Sèvres colorito e pomposo come una vecchia cortigiana, un presente di un re per un re offerto da Luigi XV.
Nel fulgore del suo tempo la corte di Carlo IV, verso il 1785, diventa ancor più afrancesada. Il nuovo maestro di eleganze è un architetto esile e ricercato ma sempre originale, Jan-Demosthène Dugourc, formatosi sull’orlo del rasoio o, meglio, quasi all’ombra della ghigliottina. Le sue idee sono fragili ma taglienti come quelle nel Manoscritto trovato a Saragozza, il racconto visionario del Conte Potocki, idee e immagini che vivono nella carta più che nella realtà. Esiste invece, e in perfetto stato di conservazione, il Gabinetto di platino di Aranjuez, disegnato a Parigi dai dioscuri del gusto imperiale, Percier e Fontaine: a Parigi si costruì l’intera stanza e molti dei suoi arredi fra il 1800 e il 1804, a metà strada fra il gusto manierato del neoclassicismo morente e la nuova visione romantica dell’antichità dell’Impero; all’opera bronzisti come Forestier, ebanisti come Jacob e il più trasognato pittore dell’Impero, Girodet. Un capolavoro parigino in esilio. E per l’esilio partirà il Re nel 1808: un decennio dopo la morte l’attendeva inaspettata, proprio accanto al mare dove era nato, a Napoli. Due settimane prima era morta improvvisamente anche Maria Luisa di Parma, nell’eterna città dove abitavano allora i Reyes Padres.
La sola consolazione per chi non sia riuscito a vedere questa mostra troppo breve ma essenziale per capire uno stile pressoché ignoto in Italia resta l’eccellente catalogo affidato a tre notevoli studiosi, un esempio da seguire in un’Europa che sembra talvolta disattenta a quanto incornicia la propria storia.