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 2009  settembre 30 Mercoledì calendario

QUEL 1° OTTOBRE CON MAO DEPRESSO A TIENANMEN


Per la stampa cinese, il pubblico, gli uomini di governo Sidney Rittenberg è «una leggenda». Sarà lui a commentare il 60° anniversario della Repubblica durante la diretta della televisione nazionale. Amico e interprete di Mao, di Zhou Enlai e di tutta la generazione dei rivoluzionari che ha fatto la Cina moderna, Rittenberg a 88 anni è ancora un fiume in piena di energia. Americano di origine ebraica, Rittenberg fu il primo straniero ammesso nel Partito comunista cinese, l’unico a essere nominato ministro nella Repubblica popolare, alle Comunicazioni. Conosce la Cina come pochi, cinesi e no.
Proprio lui, che 60 anni fa quel 1° ottobre 1949 lo trascorse in isolamento, in prigione, accusato dagli uomini di Stalin di essere una spia americana e arrestato dal suo mentore e amico Mao Zedong. Tornò in libertà solo nell’aprile del 1955, due anni dopo la morte di Stalin, quando i rapporti con tra Cina e Urss cominciarono a sfilacciarsi. La brutta esperienza non aveva incrinato la sua fede nel maoismo e il suo amore per la Cina: scelse di rimanere e nel 1959, al decennale della fondazione, era con Mao all’incontro con Krusciov. «Krusciov ci guardò, guardò tutti i cinesi che stavano intorno, come se li volesse mangiare. Anche Mao era molto arrabbiato con Krusciov. Ci disse che Krusciov aveva chiesto due cose alla Cina: concessioni sul confine con l’India, e la distensione con Eisenhower, la rinuncia all’idea di rivoluzione mondiale. Su entrambe le questioni Mao aveva risposto picche».
I due semplicemente non si capivano, secondo Rittenberg. «Nel 1956 Krusciov visitò la Cina e Mao mi raccontò che lui voleva costituire una flotta comune del Pacifico, la sede sarebbe stata Dalian, la Port Arthur del periodo della Russia zarista, il comandante sarebbe stato un ammiraglio sovietico e sulla base avrebbe sventolato una bandiera sovietica. Mao gli rispose: ”Sai cosa penso? Che dovrei dare all’Urss tutti i porti della Cina”. Krusciov non capì e chiese: ”E tu che farai?”. Mao spiegò: ”Io ritorno in campagna e ricomincio con la guerriglia, ma sappi che il popolo cinese ha sempre scacciato tutti gli invasori”».
La distanza con i russi era enorme. Mao odiava Stalin, dice Rittenberg. Stalin aveva cercato di strappargli il controllo del partito negli Anni Trenta e per poco non lo aveva fatto fucilare: «Sospettava che Mao fosse un agente americano». Ma l’anniversario più tragico fu nel 1969. «Allora ero con Mao sul rostro di Tienanmen. Era seduto in un canto e non parlava con nessuno. Mi avvicinai e scambiai qualche parola. Vidi una profonda tristezza sul suo viso. Capiva il profondo fallimento della rivoluzione culturale e forse di tutta la rivoluzione. Era come quegli eroi delle tragedie greche che sanno di sbagliare, ma vanno avanti lo stesso. Si era trasformato in un mostro, lo sapeva, gli faceva orrore, ma non poteva smettere».
La rivoluzione culturale, con la sua brutale lotta di classe, aveva ridotto il paese a livelli di assurdità: «Se il partito diceva che tua moglie era un nemico di classe tu non potevi dire o fare niente, dovevi separarti da lei e unirti alle masse nella critica di tua moglie». Fu questa assurdità che travolse poi le idee della rivoluzione culturale e spianò la strada alle riforme di Deng. Allora il modello era in fondo quello americano, idealizzato. «Oggi, dopo 30 anni di contatti, i cinesi sono diventati più scettici su quel modello», dice Rittenberg.
Ma indietro non si torna. «Entro i prossimi 60 anni la Cina sarà democratica, con leader eletti liberamente. Ma credo che ci saranno due cose diverse dal sistema democratico occidentale, almeno spero. Una riguarda una forma di controllo del grande capitale: è più in linea con l’idea di Sun Yatsen, il padre della rivoluzione a Pechino e a Taipei. I cinesi cercheranno di impedire che il grande capitale controlli la politica. L’altra riguarda le qualità personali dei leader, un principio confuciano. I leader devono avere prima virtù e poi competenza. Credo che si arriverà ad una forma di controllo sulla loro moralità».
Il problema - secondo Rittenberg - è che nonostante gli americani vantino il loro pragmatismo, l’America è più ideologica della Cina: «La Cina vuol fare affari, gli americani vogliono imporre a tutti i loro valori». Rittenberg comunque rimane un «incorreggibile ottimista», vede come la stampa americana oggi usi un tono di voce diverso quando parla della Cina: «La Cina ha molti soldi e gli americani hanno un grande rispetto dei soldi».
Poi ricorda il verso di Dante sulla carità che lo ha accompagnato nei suoi anni di isolamento in prigione. Lo recita in italiano: «En la sua volontade è nostra pace».