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 2009  settembre 30 Mercoledì calendario

IL PENTITO DI AL QAEDA: «ABBANDONATO»


 uno dei due testimoni al mondo che sa come Al Qaeda recluta i martiri islamici e come nei campi afghani li indottrina e addestra al combattimento e agli attentati suicidi. Per questo da tre anni il pentito Tlili Lazar vive sotto protezione. Chiuso in casa. Un cortocircuito burocratico gli nega i documenti di copertura che gli permetterebbero di inserirsi nella società lavorando per guadagnare di che vivere. «Ho mantenuto i miei impegni, ma lo Stato mi ha abbandonato», ha detto ai suoi avvocati, che lunedì gli avevano consigliato di non rispondere ai magistrati americani venuti a Milano per interrogarlo.

Le dichiarazioni di Lazar hanno riempito pagine di verbali. Entrato in Italia nel ”94 come bracciante, nel ”96 si trasferì a Milano dove si avvicinò ai fon­damentalisti che ruotavano in­torno alle moschee di viale Jen­ner e via Quaranta. Nel ”98 par­tì per l’Afghanistan per essere addestrato all’uso di armi ed esplosivi. Quando una bomba rudimentale esplose accidental­mente facendogli saltare le dita della mano destra, capì che fa­re il martire non era cosa per lui. «Mi sono svegliato», ha det­to. Tornato a Milano, riallacciò i contatti con gli integralisti ma, coinvolto nelle inchieste della Procura sul terrorismo in­ternazionale, dovette riparare in Francia dove fu arrestato nel 2002. Estradato nel 2006, deci­se di collaborare (come, in Ger­mania, il palestinese Shadi Ab­dallah) firmando un accordo con il Servizio centrale di prote­zione: lui rivelava tutto, lo Sta­to gli garantiva una casa, un permesso di soggiorno, 800 eu­ro al mese e un nome nuovo per rifarsi una vita. I suoi verba­li hanno aperto uno squarcio inquietante sulla rete del terro­re di Bin Laden, hanno consen­tito di chiudere processi impor­tanti e permetteranno di avviar­ne altri, compreso quello ai tre detenuti «italiani» di Guantana­mo, che Berlusconi, con una promessa personale al presi­dente Usa Obama, ha deciso di accogliere. Per questo Al Qaeda lo vuole morto. La risposta del­le istituzioni non ha soddisfat­to il tunisino, il quale invece ap­prezza l’impegno di protezione garantito dai carabinieri. «Ri­schio la vita, sono stato ai pat­ti, ma lo Stato mi ha molto de­luso », ha detto ai suoi legali che, prima dell’interrogatorio con i prosecutors , hanno conse­gnato al gip Giuseppe Gennari un elenco di rimostranze. «Co­se per lui fondamentali, non ca­pricci », spiega l’avvocato Mar­co Boretti, che difende Lazar con il collega Davide Boschi.

In soldoni, le leggi sull’immi­grazione non consentirebbero al collaboratore di diventare cit­tadino italiano e, quindi, di ot­tenere documenti con un no­me di copertura. Lazar resta La­zar e chiunque può sapere da Internet chi è. Ma nessuno as­sume uno che, oltre a essere un ex terrorista, è ricercato dagli scherani di Bin Laden. «Con 800 euro deve mangiare, paga­re la manutenzione della casa e le cure per la ferita. Non ce la fa più e potrebbe non testimonia­re ancora», dichiara Boretti, al quale Lazar ha confidato: «Chiuso in casa penso solo ai miei guai». Il rischio è che cada in depressione. Se ciò avvenis­se, potrebbe risentirne l’atten­dibilità delle sue di­chiarazioni vanifi­cando anni di lavo­ro. « un intreccio perverso di questio­ni burocratiche e normative che im­pedisce il funziona­mento del program­ma di protezione e stressa i collabora­tori, con ripercus­sioni sui procedi­menti », commenta il pm Elio Ramondi­ni, impegnato in in­chieste legate a La­zar. E che ciò che il superpentito ha da dire sia determinan­te lo sanno anche i pm americani che, capita l’antifona, lì su due piedi lo han­no invitato a trasfe­rirsi negli Usa sotto la tutela del Witness protection pro­gram . «Diffida. Ma ci sta pen­sando », dice Boretti.