Giancarlo Radice, Corriere della Sera 30/09/2009, 30 settembre 2009
GLI INVENTORI? POSTO FISSO E LAVORO DI GRUPPO
Gli Archimede Pitagorico italiani sono quasi tutti uomini, prevalentemente fra i 45 e i 64 anni, impegnati soprattutto nei settori farmaceutico e meccanico. E, a differenza del personaggio disneyano, non sono affatto quei geni isolati capaci di scovare idee rivoluzionarie chiusi nel loro piccolo laboratorio di casa. Oltre l’80% di loro ha infatti un contratto di lavoro dipendente con imprese pubbliche o private e, in misura minore, con università e centri di ricerca.
questo l’identikit degli inventori che esce dal rapporto 2009 dell’istituto Iris, che sarà presentato oggi nell’ambito degli «Incontri di Artimino sullo sviluppo locale» in programma nell’omonima località toscana, in provincia di Prato, fino al primo ottobre. Titolo: «Invenzioni, inventori e territori: prospettive e politiche di sviluppo italiane e internazionali». Il rapporto di quest’anno è legato a filo diretto con quello del 2008, quando sotto la lente dei ricercatori dell’Iris era passata la mappa italiana delle «invenzioni », quei 28 mila brevetti presentati da imprese e istituto nell’arco di un decennio a partire dal 1995. Quasi la metà (esattamente il 46,7%) ha la sua origine nel Nord-ovest del Paese, con la Lombardia che da sola rappresenta il 43,3% del totale (che sale all’85% se si aggiungono Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana e Lazio) mentre il Mezzogiorno si ferma al 4,3%. Milano da sola sforna 5.500 domande di brevetto, circa il 20% della somma nazionale.
Stavolta, invece, al centro dell’indagine sono le persone: gli inventori. Più esattamente, quelli impegnati nel campo della meccanica, della farmaceutica e degli apparecchi medicali, che rappresentano la fetta dominante delle «scoperte» italiane. E qui il primo elemento che emerge è la distanza che separa lo scenario nazionale, e i suoi protagonisti, da quella definizione, coniata da uno studioso come Richard Florida, di una «classe creativa » fatta di talenti individuali, con alte conoscenze tecniche e scientifiche, apertura mentale adeguata ad accogliere ogni forma di «diversità » e una fortissima propensione alla mobilità. Al contrario, in Italia si registra, come indica il rapporto, «un’elevata stabilità aziendale e una bassa propensione alla mobilità ». Tanto che solo il 16% degli inventori intervistati dichiara di aver cambiato lavoro dopo il brevetto. Una tendenza comune a quasi tutti i Paesi europei, con l’eccezione della Gran Bretagna, ma molto distante, per esempio, dall’esperienza americana. Del tutto minoritaria è la figura dell’«inventore isolato», appena il 18% del totale, mentre l’82% dei brevetti è il risultato di «attività fortemente socializzate», cioè l’esito del lavoro di team collettivi di ricerca. E se nel settore farmaceutico le squadre sono costituite nel 36% dei casi da oltre 5 componenti (e fra 3 e 5 nel 36% dei casi), nella meccanica quasi il 30% non ha invece più di 2 componenti.
Ma le forti differenze per settore emergono in ogni aspetto dell’indagine. Gli inventori nel campo farmaceutico e degli strumenti medicali sono in discreta parte donne (il 22%), laureati o post-laureati (l’89%), lavorano soprattutto a Milano e nel Nord-ovest in aziende private medio-grandi e nelle università (mentre al Sud l’occupazione è un’esclusiva universitaria o di istituti pubblici), sono protagonisti di processi di ricerca che per arrivare a un brevetto richiedono investimenti mediamente superiori ai 700 mila euro e tempi lunghi (solo nel 37% dei casi inferiori a un anno). Il problema è che il loro lavoro è concentrato soprattutto nella fase pre-clinica, quella meno costosa ma più distante dalle redditive applicazioni terapeutiche concrete.
«C’è una diffusa capacità scientifica di base e ci sono punte di elevata qualità – spiega Carlo Trigilia, docente all’Università di Firenze e coordinatore della ricerca insieme a Francesco Ramella, dell’Università di Urbino – ma nel complesso i brevetti pongono il settore in una condizione medio-bassa dal punto di vista innovativo. Manca una presenza significativa in quelle fasi dei test clinici sui pazienti che offrono maggiori potenzialità di sperimentazione di nuovi prodotti».
Nel dettaglio, il 27% dei brevetti riguarda l’individuazione di nuove molecole attive, il 33% molecole di cui già si conoscono le qualità terapeutiche e, di tutto il resto, solo il 26% ha a che vedere con la messa a punto di nuovi farmaci. Conclusione: secondo gli esperti interpellati dall’Iris, solo il 4,5% dei brevetti ha davvero un elevato potenziale innovativo.
Il fronte meccanico (che lo studio dell’Iris suddivide in meccanica a «elevata istituzionalizzazione» e a «bassa istituzionalizzazione») è invece composto tutto da uomini (la quota femminile non raggiunge il 2%), con un grado d’istruzione inferiore (solo il 40% ha un titolo universitario). Quelli più «istituzionalizzati » lavorano prevalentemente in aziende dei distretti industriali del centro-nordest, quelli «meno» sono spesso piccoli imprenditori, lavoratori autonomi o dipendenti di piccole imprese. qui che si trova la percentuale più elevata di «inventori indipendenti». Quanto ai costi per giungere a un brevetto, non vanno in media oltre i 240 mila euro. E i tempi sono, nel 72% dei casi, inferiori all’anno. Secondo Trigilia: «L’obiettivo prevalente delle ricerche meccaniche riguarda il campo dell’automazione industriale, cioè di quei processi o parte di processi che tradizionalmente venivano realizzati con l’impiego di manodopera specializzata».
Quel che è certo è che lo sbocco commerciale delle ricerche vede la meccanica nettamente davanti alla farmaceutica, con rispettivamente l’80% e il 45% dei brevetti che si traduce in prodotti sul mercato. E con un rendimento economico che è 5 volte superiore ai costi sostenuti.