Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 30 Mercoledì calendario

LA MINIERA DI OSAMA IN MANI CINESI


Investimento miliardario per il rame di Aynak tra le montagne afghane

MIS AYNAK (Afghanistan) – La terra dei talebani inizia dove si spegne lo sguardo ar­rogante dei poliziotti afghani. Sono stati sparpagliati qui per proteggere i centotrenta operai e ingegneri cinesi che ogni giorno percorrono questa strada sterrata. Diciasset­te chilometri tra le montagne a sud di Ka­bul, millecinquecento militari, un posto di blocco ogni centro metri. Le truppe di Ha­mid Karzai difendono i pendolari della guer­ra e tutelano l’investimento che potrebbe cambiare il futuro del Paese (o così almeno spera il governo).

All’inizio di luglio, il China Metallurgical Group, proprietà della Repubblica popolare, ha cominciato i lavori nella miniera di Ay­nak, considerato il secondo giacimento al mondo di ra­me, ancora da sfruttare. Sca­vare quassù è come dissot­terrare il passato dell’Afgha­nistan. I primi a scoprire il «tesoro» (il valore è stimato attorno ai 50 miliardi di dol­lari) sono stati i geologi so­vietici nel 1974. Non hanno mai avuto il tempo di mun­gere il deposito, impegnati a difendersi dagli attacchi dei mujaheddin. Oltre vent’anni dopo, Al Qaeda ha scelto l’altopia­no protetto da una gola per addestrare i suoi miliziani: Osama Bin Laden – scrive il rap­porto ufficiale sugli attentati dell’11 settem­bre – ha pianificato gli attacchi nascosto nelle vecchie baracche dell’Armata Rossa, qui ha voluto che venissero sottoposti al­l’esercitazione finale e selezionati i dirottato­ri usati nella missione suicida.

Il campo è stato bombardato dai B52 ame­ricani nei primi giorni della guerra che anco­ra non finisce. Le rocce rosse sono dissemi­nate di ordigni inesplosi e mine piazzate dai guerriglieri e dai sovietici. Gli sminatori del­l’Mdc, l’organizzazione non governativa af­ghana che ha vinto l’appalto del governo, hanno ripulito un chilometro quadrato di montagna (ne restano tre).

Il motore a gasolio delle trivelle è l’unico suono assieme ai latrati dei cani che sniffa­no il tritolo. Gli operai non parlano – non sono autorizzati – e il loro «villaggio» è for­tificato da una barriera di cemento, all’in­gresso un militare cinese: dovrebbero veni­re a viverci con le famiglie, quando i prefab­bricati (e i talebani) diventeranno più acco­glienti. «Di notte gli integralisti si muovono liberi in questa zona – spiega Ahmad Javid Azami, direttore operativo dell’Mdc ”. Han­no lasciato volantini di minacce nel nostro campo, lanciato razzi e nascosto bombe sul­la strada».

Il China Metallurgical Group ha ottenuto la concessione per trent’anni, nel novembre del 2007. «I lavori sono stati rallentati dai problemi di sicurezza», ammette Moham­med Ibrahim Adel, ministro afghano delle Miniere, laurea sovietica e il sorriso di chi ha vinto alla lotteria. Secondo l’accordo, Pe­chino investirà circa 4 miliardi di dollari nel­la miniera (compresa una centrale elettrica da 400 Megawatt che rifornirà anche Kabul) e altrettanti in strade, scuole, moschee, ospe­dali, una ferrovia che dovrebbe collegare il Tajikistan a nord con il Pakistan a sud.

«L’operazione darà lavoro a diecimila af­ghani e ventimila posti verranno dall’indot­to.

Il 90 per cento della manodopera dev’es­sere locale», gongola il ministro. Il governo è già sicuro di incassare un bonus da 808 mi­lioni di dollari (comunque vadano gli studi di fattibilità, che dovrebbero terminare en­tro un anno e mezzo). E se il giacimento mantiene quello che promette sulle mappe, altri 400 milioni l’anno in royalties, circa un terzo del budget annuale dello Stato afgha­no.

Il rame di Aynak è stato commerciato per secoli lungo la Via della seta. Adesso i mina­tori cinesi indossano cappelli da cowboy per proteggersi dal sole a duemila metri e chiamano casa da una cabina telefonica sa­tellitare. Il negozio-container espone jeans, prodotti da qualche parte nel Guangdong. E’ l’avamposto di quello che l’organizzazione Afghanistan Integrity Watch definisce «un Golia che potrebbe distrug­gere Davide»: «Questa mul­tinazionale è molto più po­tente del Paese che la ospita – lancia l’allarme in un rap­porto ”. Qui non ci sono leggi per la protezione am­bientale o per controllare l’impatto sociale della mi­niera ».

Il ministro Adel assicura che la scelta non è stata poli­tica: «Una commissione ha seguito l’appalto, il vincito­re è uscito dai calcoli di un computer». Eppure di que­sti tempi Pechino sembra un socio più attraente di Washington. Che ha bene­detto l’accordo, malgrado l’americana Freeport-Mc­ MoRan sia stata battuta (as­sieme ad altri contendenti indiani, russi, canadesi), i mugugni di qualche Paese occidentale («perché dob­biamo pagare noi per la sicu­rezza dei cinesi») e le accu­se di corruzione (James Yea­ger, geologo della Banca Mondiale, ha bocciato i cri­teri della gara ed è tornato in Colorado dopo essersi tro­vato nel frigorifero una bot­tiglia di birra all’acido clori­drico).

Forse non a caso, lo Stato Maggiore americano ha schierato a gennaio duemi­la uomini della 10a Divisio­ne di montagna tra le pro­vince di Wardak e Logar, do­ve si trova la miniera di Ay­nak. L’obiettivo ufficiale del­la missione è respingere le infiltrazioni dei talebani verso Kabul, l’effet­to collaterale è quello di proteggere gli inve­stimenti cinesi. Una sinergia che qualche analista delinea come via d’uscita dal caos afghano: «Pechino dimostra di voler scom­mettere sulla tenuta della coalizione – scri­ve Christian Bleuer – e potrebbe usare la sua influenza sul Pakistan. Che considera la Repubblica popolare l’alleato fondamentale, fino a garantire di esercitare il controllo su­gli integralisti per evitare che attacchino le infrastrutture».