Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  settembre 30 Mercoledì calendario

LA SFIDA DI PECHINO IN AFRICA OFFERTA SUL PETROLIO NIGERIANO


Trenta miliardi di dollari per il controllo dei pozzi

PECHINO – L’Africa è gran­de e la Cina non ha ancora finito di esplorarla. Perché grande è anche la fame di Pechino, che a tutti i costi vuole (deve) mante­nere sostenuto il ritmo della cre­scita, superare quest’anno l’8% su cui il governo ha giocato la faccia e alimentare produzione e consumi interni. E nel vasto su­permarket di risorse offerto dal­­l’Africa, il petrolio nigeriano è la nuova frontiera. Un documento riservato pubblicato dal Finan­cial Times rivela che la Cina si sta inserendo nella complessa trattativa su 23 licenze per altret­tante concessioni per l’estrazio­ne del greggio, 16 delle quali in scadenza. A mettersi in aperta concorrenza con i colossi occi­dentali – Shell, Chevron, Total e ExxonMobil – è la Cnooc, una delle «sorelle» petrolifere di Stato cinesi. Il tentativo di Pechi­no equivale a un’offerta di 30 mi­liardi di dollari, ma un’altra valu­tazione riportata dal quotidiano arriva a 50 miliardi. Abbastanza da giustificare l’eccitazione nige­riana: «I cinesi offrono davvero multipli di quello che gli attuali produttori stanno offrendo. Amiamo questo genere di com­petizione », ha detto testualmen­te Tanimu Yakubu, consigliere in materia del presidente Umaru Yar’Adua.

Se l’acquisizione cinese an­dasse a buon fine, Pechino si as­sicurerebbe 6 miliardi di barili, pari a un sesto delle riserve del Paese. Lo scenario, dove peral­tro è attiva anche l’Eni, resta tut­tavia complicato. Il governo di Abuja non vuole bruciarsi lega­mi consolidati («gli amici tradi­zionali vogliamo mantenerli», avverte Yakubu), specie con gli Stati Uniti, forti importatori del greggio nigeriano. Ma la Cina pare convinta ed è pronta ad af­frontare anche spinosi proble­mi ambientali: dall’irrequietez­za della regione del Delta del Ni­ger agli screzi con il Paese africa­no in materia di immigrazione. Altrove, nel Continente Nero, le radici cinesi sono già salde, frut­to di un’offensiva economi­co- diplomatica articolata. Dal­l’Algeria al Gabon, dalla Nami­bia al Sudan (dove Pechino non ha potuto sottrarsi a qualche mossa diplomatica in relazione al genocidio in Darfur), la Cina stringe patti per garantirsi mate­rie prime. Solo per restare al greggio, è di luglio un accordo da 1,3 miliardi di dollari in An­gola, di giugno un’acquisizione da oltre 7 miliardi per l’Africa occidentale (e l’Iraq), del giu­gno 2008 un contratto in Niger da 5 miliardi.

Non c’è solo il petrolio. La Ci­na investe in 49 Paesi africani, con una crescita annua di im­port ed export del 32% e scambi che nel 2008 hanno quasi tocca­to i 107 miliardi di dollari. Rap­presentanti di 40 Paesi africani hanno partecipato lunedì a Shanghai a un forum sulle «op­portunità di investimento» nel continente: «Non tutti gli Stati africani sono poveri, alcuni han­no un pil più alto di quello cine­se », ha avvertito il responsabile del vertice, He Liehui. Ma quan­do si tratta di petrolio, non c’è solo l’Africa. Con il Venezuela del «socialista» Hugo Chávez, Pechino ha siglato un accordo da 16 miliardi di dollari in tre anni, intesa non priva di risvol­to ideologico. E l’ideologia è l’in­grediente che Pechino vuole la­sciare fuori dagli affari. I Paesi africani le sono grati, contratti e progetti non chiedono in cam­bio il rispetto di standard demo­cratici o l’adozione di riforme politiche, come può avvenire con i partner europei. Tuttavia, a volte stare fuori dalle relazio­ni pericolose rischia di essere ar­duo. Il 15% del greggio importa­to dalla Cina nel primo seme­stre del 2009 è iraniano, e que­sti forse non sono i tempi più adatti per trattare con Teheran.