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 2009  settembre 26 Sabato calendario

PROCESSO DELL’UTRI CON SORPRESE


Adesso si scopre che Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore non era mafioso quando salì nei fienili di villa Berlusconi a occuparsi di cavalli, cani, bestie insomma. La sua affiliazione a Cosa Nostra risale al 1975, è ufficiale, mentre l’erede di Pippo Calò per l’immaginaria di certa antimafia era a villa Arcore nella Pasqua del 1974. Quindi un anno prima. Sì è vero, ci perdonino i lettori se parliamo di stalle e altre ammennicoli rurali paramafiosi risalenti a 35 anni fa, quando metà di loro nemmeno era nato, ma il processo d’Appello contro Marcello Dell’Utri a Palermo con l’accusa di mafia scandaglia queste cose. Alla ricerca del filo d’onore del senatore azzurro che aiutò Berlusconi a fondare Forza Italia.
Cavalli e Cavalieri

Ieri il procuratore generale di Palermo Antonino Gatto ha provato nella sua requisitoria a convincere i giudici che «Vittorio Mangano fu assunto nella tenuta di Arcore di Silvio Berlusconi per coltivare interessi diversi da quelli per cui ufficialmente fu chiamato in Brianza. Di cavalli Mangano non sapeva nulla». E infatti non è cosa quotidiana che un mafioso di un certo livello abbandoni la sua terra, il territorio che militarmente controlla per salire su al nord. Ora, Mangano all’epoca mafioso non era, magari vicino, amico degli amici, ma quel patto di sangue e morte che ti lega a vita all’organizzazione non c’era.

C’è di più. L’accusa insiste e ricorda il viaggio a Milano di Francesco Di Carlo, reggente di Altofonte, l’incontro, udite udite, persino con Silvio Berlusconi nella villa dietro Foro Bonaparte, per garantire protezione all’imprenditore nell’era dei sequestri. Anche qui la tesi traballa secondo quanto sostengono i difensori. Con un’argomentazione che pare solida. All’epoca Di Carlo era sorvegliato speciale, non poteva abbandonare la città di Palermo, subiva controlli senza preavviso da parte delle forze di polizia. Pena il carcere. Difficile quindi immaginare che possa aver anestetizzato i blitz a sorpresa, imbarcato per Milano e messo in agenda incontri di rilievo.

In realtà su questo processo d’appello si giocano molte sorprese. Il presidente Dell’Acqua, oggi presidente del tribunale di Caltanisetta e applicato a Palermo, mostra una certa fretta di chiudere. Certo, andiamo avanti dal 2006 ed è già passato troppo tempo. Ma siamo sicuri che sia davvero così? Che solo per questo respinge a cascata ogni richiesta di supplementi e integrazioni avanzate dalla Procura? O, invece, in questa coda di dibattimento un primo orientamento ha assunto consistenza? Diciamola tutta con una provocazione: e se la sentenza Dell’Utri venisse riformata? Se il parlamentare venisse assolto? Insomma se questo castello di date, retrodatate, pentiti e collaboratori non reggesse di fronte a toghe dall’incidere moderato e dalla storia segnata dalla misura? Ricordiamoci che su certi pentiti che hanno reso dichiarazioni contro Dell’Utri oggi pesa la legge del contrappasso. Qualcuno accusa di aver fatto il gioco delle cosche.
Come nei film gialli

Insomma, una simile sentenza farebbe un rumore impressionante. Certo, potrebbe esser superata solo da un’altra onda di magnitudo più forte. Dell’Utri cerniera nella trattativa tra mafia e Stato dopo Ciancimino? Perché no, uomo di equilibrio e di mediazione con scenari tutti nuovi che presto ci verranno proposti su schermi tridimensionali. Così come nei film gialli di pregio, gli investigatori ritornano sulla scena del crimine. Analizzano ancora tutti gli elementi. Partono dalle vecchie cose, dai Mangano, dai Bontate, dagli anni ”70, allargando lo spettro delle verifiche agli altri dipendenti, cuochi e autisti, maggiordomi e chissà chi altro per capire se aldilà dello stalliere qualcun altro puntellasse la villa. Cercano cadavere e pistola fumante. Mandanti e sicari quando i più se ne sono ormai andati. Di morte naturale.