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 2009  settembre 19 Sabato calendario

SUSSURRI E PAURE LE VITE PRIVATE SOTTO STALIN


Innanzitutto, le cifre più aggiornate. Con l’avvertenza che le stime sono prudenti e molto probabilmente inferiori alla realtà. Sotto Stalin, cioè da quando il dittatore georgiano assunse il controllo della direzione del partito (1928) fino alla sua morte (1953), allorché il numero degli internati nei campi di lavoro raggiunse l’acme, circa 25 milioni di persone, tra fucilati dai plotoni di esecuzione, detenuti del Gulag, kulak mandati negli insediamenti speciali, lavoratori coatti e deportati, subirono la repressione. Vale a dire 1/8 dell’intera popolazione (200 milioni nel 1941) dell’Unione Sovietica. In pratica, due ogni tre famiglie. E questo, naturalmente, senza includere nel conto le numerosissime vittime delle carestie e delle guerre. Quindi, calcolando i parenti delle vittime, si può affermare con sicurezza che furono davvero poche le famiglie non toccate, in un modo o nell’altro, dal terrore staliniano.
Oltre 400 interviste

Ma, allora, come era il mondo interiore dei cittadini comuni, come era la loro vita privata (se pure di vita privata, negli angusti appartamenti in coabitazione, si poteva parlare), cosa pensavano davvero, a quali compromessi morali dovevano scendere per sopravvivere? A queste domande cruciali risponde il monumentale saggio di Orlando Figes, Sospetto e silenzio. Vite private nella Russia di Stalin (Mondadori, pp. 648, euro 38), un lavoro enorme ideato a Mosca alla metà degli anni Ottanta e condotto a termine, con l’aiuto di svariati collaboratori, attraverso centinaia di interviste ”trasversali” (a cittadini come a contadini, a borghesi come a proletari, a vittime come ad agenti dell’NKVD) e l’utilizzo di migliaia di archivi di famiglia (lettere, diari, documenti personali, memoriali, fotografie, manufatti ecc.) tenuti finora nascosti in cassetti segreti o sotto il materasso.

Lo scopo di Figes, docente di storia al Birkbeck College della University of London e già autore del pluripremiato bestseller La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924 (pubblicato in Italia da Corbaccio nel 1997), è di spiegare come lo Stato di polizia riuscì a radicarsi nella società, a entrare nei cuori e nei cervelli della gente, trasformando milioni di persone normali in collaboratori del terrore o almeno in silenziosi testimoni. Perché «il potere reale e il retaggio durevole del regime staliniano non risiedono nelle strutture statali, e nemmeno nel culto dei capo, ma, come ha osservato una volta lo storico russo Mihail Gefter, ”nello stalinismo insinuatosi dentro ognuno di noi”».

Le storie esemplari messe insieme da Figes, citando sempre il nome e il cognome dei protagonisti (appena un paio le eccezioni), sono tantissime. Noi ne scegliamo due. Quella di Antonina Golovina e quella dello scrittore Konstantin Simonov (1915-1979), il personaggio centrale e l’eroe tragico del libro.

Antonina, nata nel 1923 in una famiglia contadina, ultima di sei figli, a Obuhovo (800 km a nordest di Mosca), a 8 anni, con il padre Nikolaj arrestato e condannato a tre anni in un campo di lavoro in quanto kulak, fu confinata insieme alla madre e a due fratelli in Siberia fino al dicembre 1934. Poi, pur bollata come «nemica di classe», cercò di reintegrarsi, si impegnò negli studi ed entrò nel Komsomol, l’Unione della gioventù comunista.
Silenzio con tutti

Quindi, a 18 anni, per poter studiare Medicina nascose le proprie origini alle autorità e usò documenti falsi. Senza più dire nulla a nessuno, né ai colleghi dell’Istituto di fisiologia di Leningrado, dove lavorò per 40 anni, né ovviamente al Partito comunista, né ai suoi due mariti. Solo a metà anni Novanta trovò il coraggio di aprirsi con la figlia.

Konstantin, invece, nato in una famiglia nobile (la madre Aleksandra discendeva dagli Obolenskij, il padre Mihail era un generale zarista), smembrata dal ”terrore rosso” dei bolscevichi, crebbe a Rjazan’ con il parigno Aleksandr Ivanisev, arruolato da Trockij nell’Armata Rossa come comandante e poi docente alla scuola militare, ma ansioso di crearsi una nuova identità ”sovietica” e ”proletaria”. Così a 14 anni lasciò la scuola superiore per passare all’apprendistato in fabbrica come tornitore. Neppure l’arresto del patrigno, con il conseguente sfratto, gli fece cambiare idea e mettere in discussione il sistema. Anzi, ispirato dalla propaganda sul canale del mar Bianco, si riciclò come poeta e cantore della rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro. Tanto bravo e utile al regime da essere ammesso all’Istituto di letteratura Gor’kij. Qui, diligente, puntuale, buon organizzatore e pieno di zelo (nel tempo libero scriveva recensioni invece di dedicarsi al biliardo), conquistò i dirigenti del partito.

Inizio di una carriera di gran livello nell’establishment letterario (conquistò sei premi Stalin, un premio Lenin e il titolo di ”Eroe del lavoro socialista”). Poco o nulla turbata dalle tremende sventure dei familiari. Eppure Simonov era una brava persona, onesto e sincero, in fondo anche lui una vittima dell’epoca in cui fu costretto a vivere.
Influssi sul lessico

Le conseguenze del regime di Stalin perdurano ancora oggi e si riflettono pure sul carattere dei russi, tuttora riservati e conformisti. Perché è ovvio che gente abituata a nascondere il passato persino ai figli o agli amici più intimi, a non giudicare né criticare nulla in quanto chiunque poteva essere un informatore, a condurre insomma una doppia vita, prima di aprirsi a un estraneo, pur in tempi ormai più o meno ”sicuri”, ci pensi su parecchio. O sul lessico. Tanto che la lingua russa ha due parole per definire chi parla sottovoce: una (sepcuscij) indica ”chi sussurra per paura di essere udito”, l’altra (septun) ”chi fa l’informatore o parla alle spalle del prossimo”.