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 2009  settembre 29 Martedì calendario

Ferroni: «Studiare il dialetto ci porterebbe fuori dall’Europa» - 


«Gravi e pericolose» sono definite da una mozione unanime degli italianisti italiani le iniziative re­centi sulle celebrazioni del 2011 per l’Unità d’Italia e sui dialetti: iniziative «mirate a mettere in questione, nella vita sociale, nel­la comunicazione, nella scuola, il carattere unitario della lingua e della cultura italia­na »

Ferroni: «Studiare il dialetto ci porterebbe fuori dall’Europa» - 


«Gravi e pericolose» sono definite da una mozione unanime degli italianisti italiani le iniziative re­centi sulle celebrazioni del 2011 per l’Unità d’Italia e sui dialetti: iniziative «mirate a mettere in questione, nella vita sociale, nel­la comunicazione, nella scuola, il carattere unitario della lingua e della cultura italia­na ». Gravi e pericolose perché la nostra tra­dizione culturale è un «intreccio fecondo tra pluralità di esperienze e tensione unita­ria ». E di questo intreccio, chi può parlarne meglio di Giulio Ferroni, critico e storico della letteratura al quale nei prossimi gior­ni verrà consegnato il Premio De Sanctis?

 Ferroni + De Sanctis + Ariosto: perché il premio è assegnato alla monografia dedica­ta dallo stesso Ferroni all’autore dell’ Orlan­do furioso (Salerno editrice). Partiamo dal­l’inventore della nostra storia letteraria: «Nel raccontare il legame tra civiltà, storia, letteratura, arte, De Sanctis dimostra come la cultura italiana abbia sempre cercato un’unità – dice Ferroni ”, è stato l’autore del grande romanzo dell’Unità d’Italia pro­prio mentre l’Unità si realizzava sotto i suoi occhi». Perché viene giudicato pericoloso mettere in discussione questa dimensione unitaria? In fondo, già un grande storico del­la letteratura venuto dopo De Sanctis, Carlo Dionisotti, espresse qualche dubbio sulla «teocrazia desanctisiana» e sul suo disegno storico: «Secondo Dionisotti c’è una molte­plicità di centri che però tendono a un di­scorso comune: ognuno di questi centri si confronta con gli altri. Dionisotti rivendica­va con forza la propria tradizione familiare risorgimentale e nel suo disegno di storia e geografia non ha mai messo in dubbio quella tradizione: per lui, che guardava all’Italia da Londra, dove viveva, l’attenzione per le varietà locali era inserita in un orizzonte euro­peo». Niente di «pericoloso» in senso leghista? «Le proposte le­ghiste sono pretesti per fare ru­more, uscite pericolose che ci fan­no tornare al Medioevo e rischiano di pro­iettarci verso un modello jugoslavo: pensa­te a che cosa succederebbe se i nostri giova­ni si mettessero a studiare il dialetto (e qua­le dialetto poi?) in una situazione in cui l’ita­liano nelle scuole è già molto sacrificato e le lingue straniere si studiano male. Rimar­rebbero tagliati fuori da qualunque conte­sto internazionale».

 Eppure ci sono stati importanti filoni di studio – per esempio tutte le indagini «lombarde» di un grande filologo come Dante Isella – che hanno rivalutato la lette­ratura dialettale, senza che nessuno vi intra­vedesse pericoli di sorta: «Isella, studiando Maggi o Porta, li collocava in rapporto dia­lettico con la lingua centralizzata e con la grande cultura europea: la Milano illumini­sta di Verri era un centro internazionale e il dialettale Porta era un romantico illumini­sta legato a uno scrittore europeo come Manzoni. E poi non bisogna dimenticare che c’è uno scambio continuo: Belli ha tenu­to in notevole considerazione le suggestio­ni di Porta». Anche il padanissimo Ariosto sembra muoversi su più dimensioni: lo ri­cordava ieri sul «Corriere» Carlo Lizzani ci­tando Sergio Leone: «Lizzani ha ragione a indicare la vocazione internazionale italia­na anche con quel singolare percorso Ario­sto- Leone: la Ferrara di Ariosto guardava ai romanzi cavallereschi francesi come noi ab­biamo guardato al cinema americano. Ma a me pare che cinema e letteratura recenti l’abbiano perduta, quella vocazione, sospe­si provincialmente tra chiusura locale e me­ro remake di modelli americani». Ciò non esclude, anche in Ariosto, un carattere loca­le: «Ariosto è fortemente radicato a Ferrara e in un poema di avventure fantastiche co­m’è l’ Orlando furioso inserisce riferimenti concreti alla realtà quotidiana della sua cit­tà, alle guerre contemporanee eccetera. In­somma, ha la straordinaria capacità di meta­bolizzare nel poema tutte le conoscenze classiche e grazie a ciò riesce a trasformare il suo forte radicamento in un’apertura in­ventiva straordinaria. Così Ferrara acquista una dimensione altra, molto più ampia». Ma non piacque molto a De Sanctis: «In Ariosto vedeva un dominio del cinismo co­mico e un culto eccessivo della bellezza fine a se stessa, come fosse privo di tensione ci­vile. Però ha messo in luce il valore dell’iro­nia e la forza fantastica». C’è un filone comi­co- emiliano che sopravvive ancora oggi: «Il più ariostesco di tutti è Cavazzoni, ma an­che il primo Celati è nel solco di Ariosto. Per non dire della combinatoria fantastica di Calvino. Ma gli ariosteschi si trovano an­che fuori d’Italia: basti pensare a Borges. Al­tro che scrittore padano!».

 Quel che ancora oggi ci dice De Sanctis è che la grande letteratura non è campanili­sta né secessionista. Non lo è neanche quel filone di poesia dialettale così importante nel Novecento (tantissimi i nomi, da Marin a Pasolini, da Giotti a Scataglini, da Noventa a Baldini)? «La scelta del dialetto in poesia è stata la scelta di una lingua pura per eccel­lenza, in contrasto con la lingua della comu­nicazione consumata dai media: è quella che Pascoli chiama ”la lingua che più non si fa’. Il dialetto della poesia non ha un rappor­to effettivo con la comunità dei parlanti, è la lingua originaria, dell’infanzia perduta». Come succhiare il latte di Eva, ha detto Zan­zotto: «Niente a che vedere con il dialetto usato oggi in certa narrativa, un colore loca­le, un idioma banalizzato che ha aspetti di espressionismo soltanto esteriore, un uso superficiale e di maniera». Ma oggi, tolto l’aspetto linguistico o espressivo, qual è in letteratura il vero elemento unificante? «Nei libri migliori, direi l’attenzione alla di­sgregazione, la capacità di collocarsi dentro il cuore frammentato della società, dalla Si­cilia a Milano: penso all’orizzonte romano di Andrea Carraro o a quello lombardo di Giorgio Falco (una grande sorpresa!), o ai napoletani Giuseppe Montesano e Antonio Pascale, tutti autori che affrontano la di­mensione slabbrata della quotidianità e di una periferia diffusa e alla deriva: tutta gen­te che evita gli effetti choc e esasperati del noir, ormai diventato un genere consuma­to ». 

A proposito. Ferroni ha appena pubblica­to, da Liguori, una sua intensa testimonian­za in difesa della letteratura, La passion pre­dominante: 

vi racconta, tra l’altro, come nacque il suo piacere di lettore negli anni della ricostruzione, quando trovare un libro era un’impresa. Ci sono pagine molto sugge­stive in cui si raccontano incontri-chiave, come il prof. Puntoni che obbligava i suoi allievi a redigere una sorta di storia lettera­ria personale, il gusto combinatorio speri­mentato nel gioco e nello sport e poi trasfe­rito all’esercizio critico. E i primi oggetti del desiderio: la scoperta dei piccoli libretti gri­gi ed economicissimi della Bur, con i «noir» di Poe e le opere di Gogol, e poi con i drammi di Shakespeare. Un’iniziazione let­teraria che coincide con i nodi esistenziali ed etici di una vita, dandole pienezza e valo­re. E proprio sul concetto di valore ci fa ri­flettere Ferroni, nella seconda parte del suo libro, più amara: vissuto il tempo della lettu­ra come esperienza critica e rapporto vitale con l’altro, si passa a un’epoca (quella attua­le) in cui il solo valore visibile è la quantità. E l’effetto della costipazione (di libri, di isti­tuzioni, di burocrazia, di oggetti), opposto alla penuria di un passato pieno di futuro, diventa vera e propria angoscia della quanti­tà. Così, anche l’esigenza di un’ecologia del­la letteratura quale coscienza e difesa della memoria dovrebbe essere un’urgenza capa­ce di unirci.