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 2009  settembre 26 Sabato calendario

BASSOLINO, VITA CORTE E MIRACOLI DELL’ULTIMO VICERE’


Tutti gli uomini del Viceré. Mariano Maugeri, inviato del Sole-24Ore, per il suo libro (edito da Rizzoli) sulla Napoli d’oggi evoca una figura legata a sepolte monarchie europee. Vicerè: governatore. Come s’appellano i presidenti delle regioni odierne. Come Antonio Bassolino.
Maugeri non fa sconti, e presenta il presidente campano come una specie di Jago. Colui che ha manipolato le speranze di una popolazione in cerca di riscatto. E che prima o poi dovrà dar conto del tradimento. La scalata comincia nella Napoli dissestata del 1993. Due mandati da sindaco. Ma è «un rinascimento immateriale, mediatico, un finto risarcimento per gli anni del colera, del terremoto, delle tangenti e della camorra». Quindi, il passaggio in Regione. E siamo ai giorni nostri: nell’aria, il ritorno alla fascia tricolore di sindaco (ma c’è stata la smentita all’intenzione). Il libro è un pamphlet ricco di dati, la cui prima missione sembra l’abbattimento del simulacro bassoliniano. Perché in esso si racchiude il fallimento di un’intera classe dirigente. Il vicerè e la sua corte. Andrea Cozzolino, da promessa calcistica del Savoia a euro-delfino del governatore (primo eletto del Pd nel Sud alle ultime consultazioni per Bruxelles). Corrado Gabriele, promotore da assessore regionale di indimenticabili corsi per veline e relax trainer. Eduardo Cycelin, da giornalista a plenipotenziario in città per l’arte contemporanea, autentica passione del governatore: il fiore all’occhiello si chiama Madre, museo che si trasforma anche in discoteca dei sabati di Forcella, e per il quale saranno i vigili urbani muniti di sigilli a decretare la fine dell’avventura ballerina.
Lungo le pagine sfila la tragica commedia degli errori imputabili al bassolinismo. Il dissesto sanitario. L’emergenza ambientale con lo scandalo dell’immondizia. La disoccupazione. E tuttavia tutto questo non vale a sciogliere il rebus che riguarda il governatore. Il viceré che ha perso. Ma non hanno perso tutti i re che lo hanno scelto, mantenendolo nel Palazzo nonostante tutto per non perdere la corona? Percepire Bassolino come responsabile unico vuol dire forse davvero pensare Napoli come distretto coloniale, o al massimo come contesto per nuovi Uzeda, come quelli dei Viceré di De Roberto. La Padania, qualche giorno fa, nell’apertura di prima pagina, per attaccare Mercedes Bresso, sosteneva che era «come Bassolino». E allora è questo: il parametro su cui misurare il fallimento della sinistra? O forse è una specie di tabù della sinistra stessa, di cui meno si parla e meglio si sta, salvo magari contare sul peso elettorale che il viceré ancora conserva? «Decideranno i napoletani» si affrettano a dire i leader nazionali interrogati sull’argomento. Forse diventa sempre meno vero.
Ma forse è il caso di soffermarsi sul titolo del libro e sul viceré. Perché in larga misura è un concetto che occupa tutta la scena, e probabilmente oscura il resto del volume. Che riserva molte pagine a Palazzo San Giacomo. Al suo recente passato bassoliniano e ancora più al suo presente nel segno di «Rosetta degli spiriti» Iervolino.
E dunque eccolo l’imponente edificio borbonico, «17 finestre in stile neoclassico di fronte al Maschio Angioino, una chiesa cinquecentesca al suo interno, San Giacomo agli Spagnoli, 846 stanze, un labirinto di corridoi», palazzo bifronte come un Giano: da una parte il Comune e dall’altra - su via Toledo (da Don Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga: un vero vicerè) - il quartier generale del Banco di Napoli. «Il potere da una parte e i denari dall’altra», «una zona franca: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Qui vale la legge del più forte, il ricatto è la moneta di scambio, e i segreti ne raccontano la storia più autentica».
Dal 2001 la Iervolino governa su Palazzo San Giacomo, dopo aver sfiorato la presidenza della Repubblica, essere stata a capo del Viminale, aver ricoperto la carica di ministro della Pubblica istruzione («dicastero di cui i suoi genitori sono stati sottosegretari. A suo modo, un record», osserva Maugeri), oltre a svariati mandati parlamentari e una lunga permanenza nel cda Rai. Insomma, una lunga consuetudine col potere. Che però non basta a sapere governare Napoli, «la Napoli senile» nella cui giunta comunale i più rappresentativi sono «tre signori d’altri tempi: il sindaco, il vicesindaco Tino Santangelo, l’ex guardasigilli Luigi Scotti. 220 anni in tre». A contorno, una serie di «assessori al nulla», come Gennaro Nasti, addetto «alla risorsa mare». E che risorsa: «Il Golfo di Napoli, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, è al secondo posto per rischio di tossinfezione dopo Bangkok». Incombe sulla giunta (e sulle precedenti) la maestà vuota del Real Albergo dei Poveri, uno dei più grandi palazzi d’Europa, transennato e cadente: il monumento dell’impotenza odierna. E poi i buchi neri di una città dove «se si escludono Chiaia, Posillipo, il Vomero e alcune porzioni del centro storico, tutto il resto è un non luogo». Un non luogo dove sembra realizzarsi la visione di Italo Calvino per una delle sue Città invisibili, quella chiamata Pentesilea, «periferia di se stessa», dove « per quanto ti allontani dalla città non fai che passare da un limbo all’altro e non arrivi a uscirne». A Napoli quest’immagine si forma davanti agli occhi. Pianura, per esempio: «Non ci sono 58mila residenti, come recitano i dati del Comune, ma quasi 120mila. Vie senza nome e numero civico abitate da decine di migliaia di napoletani. Le anime morte. Chi paga le tasse a Pianura? Forse, a insaputa dei più, Pianura è un inferno fiscale off-shore, con vista sulla discarica Pisani».
Discarica. Monnezza. Un requiem per la classe dirigente campana. La Regione. Il Comune. Un assessore, Giorgio Nugnes, si ammazza, e si scopre che era una sorta di alter ego in giunta di un grosso imprenditore con affari in mezza Italia: Alfredo Romeo. Il grande business di Napoli si chiama Global Service. «La politica è morta. Quella singolare materia che le è sopravvissuta serve solo come sponda per gli affari», è la conclusione di Franco Roberti, allora capo della direzione distrettuale antimafia.