Gino Castaldo, la Repubblica 28/09/2009, 28 settembre 2009
D’ORAZIO: "SONO VECCHIO, VOGLIO FARE IL PENSIONATO"
Oggi a Milano il primo dei due concerti di addio del batterista al gruppo più longevo della musica italiana Ci racconta la sua scelta e come ha affrontato questi 40 anni vissuti sulla scena
C´è tutta una retorica dello stare insieme dietro la nostra musica ma corrisponde alla realtà sennò non ce l´avremmo fatta
Ero il precisino del gruppo e mi occupavo dell´organizzazione ma il mio lavoro veniva dato per scontato e questo mi offendeva
ROMA
Il caro amico Stefano D´Orazio esce dal gruppo, dopo quarant´anni. Lacrime e bilanci di vita si mischiano ai fumi colorati e alle melodie strappalacrime dei Pooh, in un saluto vissuto sul palco con un tour che è diventato in corsa un addio lungo quaranta date (oggi e mercoledì a Milano le ultime, definitive, puntate). Ironie a parte, più che un gruppo sembra di parlare di una istituzione, la più antica, duratura e popolare della canzone italiana. «In effetti me la fanno vivere così» racconta il batterista, «non mi sono mai sentito una bandiera, ma alla fine ti ci fanno sentire, in fondo abbiamo accompagnato più generazioni, una colonna sonora di 40 anni. Per molti i Pooh hanno rappresentato lo stare insieme, l´icona degli amici per sempre, uniti si vince, tutta una retorica che cova dietro la nostra musica, ma corrisponde alla realtà. Del resto non sarebbero stati possibili 40 anni di convivenza, ed è ancora più incredibile se si pensa che non eravamo amici prima di cominciare, ci siamo scelti come musicisti e poi siamo diventati amici, ci siamo assegnati ruoli di vittime e carnefici, un´azienda a conduzione familiare».
Lei è uno di quelli che accetta di piangere senza sentirsi sminuito come uomo?
«Io? Piango praticamente sempre, anche quando rivedo Et per la quarantesima volta. Figuriamoci questi giorni. Avevo pensato di risolvere tutto con un discorsetto all´inizio dei concerti. Gli altri erano dubbiosi, pensavano che questo gelasse la platea. E così ho fatto ma ogni volta mi si spezza la voce, se incrocio un occhio commosso, mi devasta. Poi Facchinetti mi ha dato la botta finale. Ha aggiunto una canzone che esegue da solo al pianoforte, si intitola Domani, e anche se è di molti anni fa, sembra scritta appositamente per me. Quando la canta devo distrarmi, se no mi metto a piangere come un vitello».
E´ stato un lungo addio?
«Io ho fatto il Pooh a tempo pieno e quando sono arrivati i fatidici 60 anni ho pensato che questa corsa doveva finire. Mi sono trovato svuotato di stimoli. Tre anni fa cominciai a dire che volevo smettere. Sembrò una boutade, non mi hanno preso in considerazione, io ci tornavo sopra e mi dicevano di traghettarli ancora un poco, poi ho detto basta davvero, e loro: ma non è giusto, almeno un ultimo tour per salutare il pubblico. Ci hanno messo un po´ a metabolizzare questa decisione, poi quando hanno capito veramente mi hanno aiutato».
Alla fine quella dei Pooh è la storia di un record...
«Sì, siamo nel Guinness, anche per un altro motivo che non so se gioca a favore: abbiamo praticamente fatto un disco l´anno, per tutta la nostra vita, quindi non abbiamo mai avuto pause, ma questo è uno dei motivi per cui mi sono allarmato».
Non teme il vuoto che ora si troverà davanti?
«Chi lo sa? Il fatto è che non so neanche com´è, e questo è il punto. So cosa non voglio fare più, ma non so cosa voglio fare. Ho conservato le agende di tutti questi anni, faldoni interi, mi sono reso conto che tutte le mie giornate erano piene, sei mesi prima sapevo già quello che dovevo fare. Ora ho una sensazione straordinaria: dal primo ottobre ho tutto bianco ed è la prima volta in assoluto che mi capita nella mia vita».
C´è stato prima d´ora un momento veramente brutto?
«Come no, anche più di una volta. In particolare il ruolo che mi ero scelto del precisino, scrupoloso, succedeva che alla fine si danno le cose per scontate e questo a volte mi offendeva perché lavoravo come un matto sull´organizzazione».
Qualche delusione?
«Anni fa, era morto da poco mio padre, e su una musica scritta da Roby avevo proposto un testo che era come una lettera a mio padre, mi ero commosso. L´ho dato agli altri e mi ero messo in sala di regia, non potevo sentire ma capivo dalle loro espressioni che a loro non piaceva. Il succo era che i Pooh non parlano di morte, ho fatto finta di condividere, e ho scritto un altro testo, ma mi rimase l´amaro, e forse avrei dovuto insistere».
Il ricordo più bello?
«Una volta facemmo il treno Telethon. Arrivavamo nelle stazioni, il vagone si apriva e diventava un palco. Per testarlo ero stato mesi sulla tratta morta tra Milano e Bergamo per vedere se reggeva, e forse per le vibrazioni, mi era venuto un calcolo, una sofferenza indicibile, ma il giorno dopo avevamo l´udienza con papa Wojtyla, quindi partii per Roma. Mi ricordo la tenerezza di quell´uomo, già sofferente, col medico personale al seguito. Cominciò a dirci: è difficile fare il vostro mestiere, parlare con la gente, la parola può essere un´arma. Io, poco rispettoso, dissi: Santità, certo pure lei, non è che fa un lavoretto da poco. Beh, siamo scoppiati a ridere, lui compreso, mancava poco che finisse a pacche sulle spalle. Poi gli dissi: Santità sono due giorni che sto a pezzi, lui chiamò il medico e gli disse di darmi quelle goccette che prendeva lui. Ripartii verso Viareggio per un concerto, e iniziò il dolore. Presi le goccette, e da allora non ho più avuto nessun disturbo».