Marco Bertoncini, ItaliaOggi 19/09/2009, 19 settembre 2009
MONTANELLI ERA UN GRAN CONTABALLE
«Riuscii a indossare la mia uniforme da capitano dei granatieri: volevo arrendermi da soldato, non da imboscato. M’interrogava un ufficiale della Wehrmacht. Avevo avuto il permesso di vestire la mia giubba da capitano anche in cella e un giorno venne a interrogarmi un sottufficiale. Mi rifiutai di rispondergli perché il suo grado era inferiore al mio. Quell’orgoglio di soldato fu il collante che tenne insieme i miei nervi: la fierezza militare prevalse sulla paura».
Così il principe del giornalismo italiano, Indro Montanelli, rievocava una propria drammatica esperienza bellica, dettando a Tiziana Abate testimonianze raccolte nell’autobiografia Soltanto un giornalista. Questo fiero militare che sprezzantemente rifiutava l’interrogatorio da un inferiore in grado, questo combattente di più guerre, questo testimone diretto di molteplici eventi militari per decenni narrati, scritti, riveduti, ripetuti, ha lasciato sulla propria attività militare molte pagine, tanto in libri quanto in articoli, per tacere delle interviste.
Però, però_ A compulsare il fascicolo personale di Montanelli, presso l’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, emergono elementi (date, rapporti, circostanze) che legittimano più di un dubbio sulla rispondenza al vero di non pochi episodi del Montanelli bellico.
Ne risulta infatti che Montanelli non divenne mai capitano, neppure tenente, restando sempre semplice sottotenente. Non era nemmeno un granatiere, bensì un fante.
Civetterie, si dirà. Certo che molti altri dubbi emergono. Un esempio: partito volontario per l’Eritrea nel 1935, Montanelli fu assegnato al XX battaglione coloniale comandato dal maggiore Mario Gonella il quale, disse l’interessato alla Abate, gli diede il comando «di una banda di ascari».
In altre due sue biografie, la banda diventa una compagnia, mentre secondo lo stesso Indro (in una lettera ad Arrigo Petacco) gli ascari che comandava erano «un battaglione». In realtà si trattava di un semplice plotone, anzi, ancor meno, come si evince da una lettera scritta da Montanelli ad Aldo Borelli, direttore del Corriere della Sera: il giovane giornalista si proponeva come collaboratore, giacché «anche dopo il congedo sarebbe restato in Africa» e si riprometteva di girarla come aveva fatto per 16 mesi (in realtà, nemmeno due) col suo «plotoncino di ascari».
Montanelli raccontò alla Abate, con dovizia di particolari, una guerra cui non partecipò che per poco più di un mese. Disse pure di aver ricevuto un encomio solenne dal comando, ma non se ne trova traccia nei documenti, da cui invece risulta che il 19 novembre ’35 (la guerra era cominciata il 3 ottobre) fu messo agli arresti per otto giorni con la seguente motivazione: «Si presentava col suo plotone all’adunata di Compagnia per l’avanzata con 10 minuti di ritardo».
Il merito di un’attenta lettura dei documenti archivistici e soprattutto del raffronto con quanto dal giornalista dichiarato o scritto va a Serena Gana Cavallo, la quale espone il suo prezioso lavoro nell’accurato saggio Il «capitano» Montanelli (dal sintomatico occhiello «Un miles gloriosus chiamato Indro»), pubblicato sul fascicolo di settembre della ricca rivista Storia in rete. Si rilevano così non pochi episodi da rileggersi fuori della vulgata che Montanelli medesimo propagò.
Un episodio sul quale molte volte il giornalista tornò è l’articolo da lui scritto sulla presa di Santander, avvenuta nell’agosto del ’37 per opera dei nazionalisti di Franco. Montanelli sostenne che in realtà la battaglia era stata «una passeggiata» con un solo nemico: «Il caldo».
Orbene, l’articolo non lo scrisse né al fronte, né in Spagna, ma a Saint-Jean-de-Luz, in Francia. A detta tanto dell’interessato quanto dei suoi biografi, gli sarebbe costato l’esclusione dal sindacato dei giornalisti e l’espulsione dal Partito nazionale fascista (Pnf). Eppure, in quel frangente, il supposto antifascista inviava una lettera al comando del distretto di Roma, per richiedere un documento comprovante il periodo di servizio quale volontario in Africa orientale, che gli era stato «richiesto dalla Federazione fascista dell’Urbe per l’aggiornamento della mia cartella personale di fascista».
Il fatto è interessante perché va considerato con quanto l’Ovra, nel ’40, scrisse in un rapporto su Montanelli, accusato di mormorazioni antifasciste: «Iscritto al Pnf dal 21/4/1932»; non solo senza nulla aggiungere su presunte espulsioni o mancate reiscrizioni, ma definendolo «già corrispondente di guerra in Spagna». Se ne ricava che, almeno fino al ’40, il futuro fondatore de il Giornale rimase iscritto al partito fascista e mai ne fu espulso, men che meno, dopo l’articolo su Santander.
La sintesi della Gana Cavallo è spietata: Indro Montanelli non fu mai ferito. Non ebbe mai decorazioni, fatta salva la croce di guerra al valor militare. In una comunicazione del ministero della guerra nel ’38 s’informava che il generale Bastico «valendosi della potestà conferitagli quale comandante il corpo TV (truppe volontarie) in Spagna ha concesso le seguenti ricompense al v.m. ai sottonotati giornalisti: medaglia d’argento ad Achille Benedetti; medaglia di bronzo al v.m. a Luigi Barzini, Sandro Sandri, Luigi Pomè, Marco Franzetti; croce di guerra al v.m. a Patuelli Raffaello».
Le motivazioni delle decorazioni erano sul tono di quella a Montanelli, ma riferite alla battaglia di Santander. Il che dimostra, a giudizio della spietata ricercatrice, che tali decorazioni erano una sorta di «bonus» di regime per i rappresentanti della stampa e che Montanelli, a Santander, nell’autunno 1937, non c’era proprio.
Diciamolo francamente: molte leggende metropolitane le fece nascere lo stesso Montanelli con versioni diverse di incontri, viaggi, citazioni, nel corso degli anni destinate a mutarsi, a ingigantirsi, a smentirsi. Ingigantì la sua partecipazione guerriera, anche quando si trovava in tranquille redazioni distanti dal fronte.
Preziosa è la lucida contestazione di non pochi episodi montanelliani della guerra di Finlandia nel ’39-40 compiuta da Luigi G. Deanna nello spietato volume La memoria perduta. Montanelli e la Finlandia. Implacabile è la stessa Gana Cavallo nella recensione da lei stesa alla biografia di Paolo Granzotto su Montanelli.
Queste «rivisitazioni» non vanno lette come una sorta di deteriore revisionismo aprioristico, bensì come contributo al ritratto di un giornalista certo padrone come pochi della penna, ma anche bizzoso e narcisista, nonché, per dirla con Petrolini, creatore e inventore: di splendide pagine, ma anche di parecchie balle.