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 2009  settembre 27 Domenica calendario

Gianfranco Fini ha vissuto ieri forse la sua prima vera giornata da separato in casa nel Popolo della Libertà

Gianfranco Fini ha vissuto ieri forse la sua prima vera giornata da separato in casa nel Popolo della Libertà. Certo c’erano già state, in precedenza, schermaglie con i colleghi parlamentari. Certo il Giornale di Feltri lo aveva già attaccato, e con quale veemenza. Ma ieri Fini il distacco lo ha avvertito con la gente del suo partito; proprio lui, uomo abituato per vocazione e storia personale a parlare alla gente, ha incontrato un grande freddo, e poi una divisione che sarà difficile ricomporre. Il patto di non aggressione fra le due anime del Pdl è durato un’ora e mezza. Poi è stata una donna a dirgli a brutto muso che il matrimonio è in crisi. «Sono diventato di sinistra? Ho perso la testa se penso che chi è nato in Italia e ha fatto qui il primo ciclo di scuola può diventare italiano anche prima di compiere i 18 anni? Dico un’eresia?» ha chiesto Fini mentre perorava la causa della cittadinanza più veloce agli stranieri. «Sì», ha detto la signora dal pubblico. a quel punto che il presidente della Camera ha abbandonato il suo consueto aplomb: «Sarà un’eresia per lei! Ma quando quel ragazzino si mette la maglia della Nazionale, lei è una di quelle che si commuovono!». Poi è stato Tremonti a mettere il carico da novanta contestando ad una ad una tutte le argomentazioni dell’«eretico»: «Le cose giuste vanno fatte al momento giusto... Provate a chiedere ai francesi e ai tedeschi se non hanno problemi con la cosiddetta ”felice terza generazione” di immigrati... Gli alberi devono crescere dal basso verso l’alto, e i frutti si raccolgono solo quando sono sui rami». Non è che Fini non abbia raccolto applausi. Ma se ieri alla festa del Popolo della Libertà al Lido di Milano avessero installato uno di quegli applausometri che si usavano nelle tv d’antan, non c’è dubbio su chi avrebbe vinto fra Giulio e Gianfranco, azzurri già divisi da vecchie ruggini. Che quello di ieri sarebbe stato un pomeriggio difficile Fini lo sapeva certamente. Anche perché, con coraggio, aveva deciso di giocare in trasferta. Milano non lo ha mai amato molto. Neppure i «suoi», quelli dell’ex Msi, che erano ragazzi quando lui, Fini, venne imposto da Almirante alla guida nazionale del Fronte della Gioventù. C’erano state libere elezioni interne e aveva vinto Marco Tarchi, molto amato da una gioventù di destra che viveva una sorta di inferiority complex rispetto a quelli di sinistra. I compagni avevano dalla loro intellettuali, cantanti, scrittori, attori. Quelli di destra la fama di muscolari punto e stop. Tarchi garantiva, ai loro occhi, un salto di qualità, l’importazione di cervelli stranieri, la legittimazione della destra come pensiero e non solo come azione. Per questo Tarchi vinse quelle elezioni. Fini arrivò quinto. Ma Almirante lo impose ugualmente come segretario inventandosi una norma per la quale, all’interno della cinquina dei più votati, era il segretario nazionale del partito a scegliere il capo del Fronte. Il Grande Freddo tra Fini e Milano ha origine in quei giorni lontani. Già mezzo estraneo alle Feste del Secolo di allora, Fini si deve essere sentito un marziano arrivando ieri alla festa del Pdl. All’ingresso solo due stand ricordavano qualcosa di Alleanza Nazionale: quello di «Fare Occidente», scritto con caratteri Anni Trenta, e quello della Giovane Italia; una decina di persone fra tutti e due. Gli altri stand riflettevano il nuovo corso: uno del Grana Padano, uno di «prodotti tipici sardi», uno di marmellate. Ce n’era anche uno con l’insegna Pdl, ma voleva dire «Prodotti del Lodigiano»: vini formaggi e salumi. Sapendo di non poter vincere su questo campo, Fini ha provato a giocare per il pareggio per un’ora e mezza. Alla prima domanda di Riotta («Come sta gestendo la crisi il governo?») il cofondatore del Pdl ha fatto ricorso alla diplomazia imparata ai tempi della Farnesina: «Il presidente della Camera non commenta gli atti del governo, né quelli dell’opposizione». Poi poche parole, e un rispettoso ascolto degli interventi altrui, restando sempre impassibile nella sua grisaglia chiara, solo qualche carezza alla cravatta ogni tanto, un gesto che gli è ormai abituale. Ma quando alle 17,30 Riotta lo incalza sulla questione-immigrati, Fini cambia passo: «Permettetemi - esordisce - di spogliarmi per un momento degli abiti istituzionali e di vestire quelli del militante». Ma militante di quale partito? Tra il pubblico di partiti sembravano essercene due, e quello di Fini era in netta minoranza. «Non mi interessa il numero degli anni di permanenza in Italia, la cittadinanza non deve essere solo un fatto formale e burocratico, bisogna darla a chi ama il nostro Paese»; e poi una frecciata alla Lega: «Se l’obiezione alle mie proposte è che non sono contemplate nel programma elettorale, è un’obiezione risibile». Fini si accalora, è molto diverso dal Fini di mezz’ora prima, chiude con un’altra stoccata, questa volta a Feltri: «Non accetto scomuniche preventive dagli organi di giornale». Dice proprio così, «organi di giornale», e non si capisce bene se aveva in mente di dire «organi di partito» e si sia trattenuto all’ultimo momento. In ogni caso la bislacca definizione tradisce la perdita della calma. La recupera poco dopo, la calma, assistendo con un sorriso forzato alle ovazioni per Tremonti che lo contraddice. Riotta gli sussurra in un orecchio se vuole replicare, ma lui col capo fa cenno di no. Finisce con tutti i partecipanti al dibattito - lui, Riotta, Bombassei, Tremonti, Bonanni ed Enrico Letta - sul palco mentre suonano l’Inno di Mameli. Solo lui, Fini, lo canta. Perfino l’ex fedelissimo La Russa, che era salito per stare al suo fianco e che aveva intonato le prime note, dopo un attimo si distrae, comincia a parlare con qualcuno del pubblico, quindi se ne va. Stampa Articolo