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 2009  settembre 26 Sabato calendario

L’insegnamento di Epicuro si diffuse a Roma e in Italia con una impressionante, e per alcuni allarmante, rapidità raggiungendo anche ceti non propriamente di eleva­tissima cultura

L’insegnamento di Epicuro si diffuse a Roma e in Italia con una impressionante, e per alcuni allarmante, rapidità raggiungendo anche ceti non propriamente di eleva­tissima cultura. Era la sua te­oria del piacere la principa­le causa di successo. I molto colti leggevano il greco o addirittura scriveva­no in greco, come Lucullo, Silla, Cicerone: per costoro attingere direttamente alle fonti del pensiero greco non era certo un problema. Per loro era ovvio conosce­re l’insegnamento dei filoso­fi greci e soppesare il pro e il contro disquisendo sulla teoria epicurea del piacere. Cicerone nei suoi dialoghi filosofici, in particolare nel De finibus bonorum et ma­lorum, mette in scena per l’appunto alcuni esponenti dell’élite intellettuale roma­na impegnati in siffatte di­scussioni, in particolare in­torno alla teoria epicurea del piacere come assenza di dolore. Una teoria che pote­va essere, con intento pole­mico e denigratorio, bana­lizzata e resa grossolana, mentre in realtà racchiude­va uno dei più sofisticati di­stillati di saggezza che il pensiero greco avesse realiz­zato. Il piacere come assenza di dolore veniva ad identifi­carsi con la nozione di vera libertà: in opposizione alla pseudo-libertà del linguag­gio politico, che nella visio­ne lucreziana dell’epicurei­smo, è unicamente fonte di inutile ed esasperante dolo­re (il politico è, da Lucre­zio, assimilato a Sisifo). Nelle Tusculane Cicerone si dice molto preoccupato per il diffondersi dell’epicu­reismo «in tutta l’Italia». E denuncia le traduzioni lati­ne che stanno diffondendo il pericoloso verbo. Fa an­che dei nomi di tali tradut­tori (Cazio e Amafinio), le cui opere non ci sono giun­te, diversamente dalla «tra­duzione », se così possiamo chiamarla, di Lucrezio, che – ironia della storia – fu poi pubblicata postuma pro­prio da Cicerone! (Prova non trascurabile dell’attra­zione, anche rispetto ai non adepti, di quella idea asceti­ca del piacere). Ufficialmen­te Cicerone mostrava allar­me. E ciò si spiega. Se molti si fossero convinti che il pia­cere è assenza di dolore, e che fonte di dolore è la fero­ce lotta politica, un vulnus non lieve ne sarebbe venu­to allo stile di vita e al fun­zionamento stesso della Re­pubblica, ma anche delle in­numerevoli realtà munici­pali. Il piacere del libro era fre­quentato dalle classi alte. Come si ricava da Ovidio, ma anche dalla pittura pompeiana, anche le don­ne leggevano. E un tale pia­cere poteva conseguirsi non soltanto individual­mente, in solitario raccogli­mento, ma anche nel rito collettivo della pubblica let­tura, della declamatio. Pli­nio il giovane racconta che un giorno l’imperatore Claudio passeggiando nel proprio palazzo udì un gran rumore. Chiestane la causa, apprese che lo stori­co Noniano stava dando let­tura pubblica della sua ope­ra. Lasciò ogni occupazio­ne e si affrettò ad andar lì anche lui, «cogliendo piace­volmente di sorpresa l’as­semblea con la sua presen­za ». Oggi però – seguita Plinio – la scena è cambia­ta. Gli ascoltatori si raccol­gono a chiacchierare nelle pubbliche piazze, mentre invece dovrebbero stare in sala ad ascoltare. Ma han­no ormai una loro tecnica: mandano uno schiavetto a sbirciare a che punto è l’oratore, e si regolano per farsi vedere al momento giusto. Il grande diletto mentale della lettura stava ormai cambiando natura. Ma Adriano lo rimise in au­ge, e destinò un intero edi­ficio a tal fine: l’Ateneo, che era un piccolo teatro, da lui creato a sue spese, per rilanciare, come infatti per qualche tempo accad­de, la pubblica lettura.