Guido Ambrosino, il manifesto 26/09/09, 26 settembre 2009
E ANGELA MERKEL SCOPRI’ KEYNES
Non promette rose e fiori, Angela Merkel. Ai tedeschi, chiamati domenica 27 settembre a votare per il Bundestag, dice che la crisi economica - «la più grave del dopoguerra» - non è ancora superata. Al tempo stesso li rassicura e li incoraggia, con un «possiamo farcela». «Noi abbiamo la forza» per venirne a capo, è lo slogan di fondo della sua campagna elettorale: Wir haben die Krafr, dove il wir (noi), stampato su un campo tricolore nero-rosso-oro, si riferisce a «noi tedeschi» prima che a «noi cristiano-democratici». Dunque spirito di squadra, innanzitutto.
E la squadra può contare su una capitana di valore, la Angela Merkel il cui ritratto a grande formato campeggia ora in tutte le città tedesche, in un’ultima campagna di personalizzazione. Qui lo slogan recita: Klug aus der Krise, dicitura polivalente che, siccome manca il verbo, si può interpretare o come un auspicio per il futuro, «Con intelligenza, per uscire dalla crisi», o come un riconoscimento per il lavoro già svolto dalla cancelliera: «Con
intelligenza, stiamo uscendo dalla crisi».
Intelligenza che certo non manca a Merkel nel senso di accortezza, ragionevolezza e senso della misura. Ma non è detto che questa ”saggezza” politica basti. La questione, accuratamente rimossa nella campagna elettorale democristiana, è se non sia entrato
irri mediabilmente in crisi il modello economico tedesco, basato su gigantesche esportazioni, pari al 40% del prodotto nazionale, almeno nei bei tempi non lontani in cui tutto il mondo comprava il made in Germany. Prodotti di solida qualità tecnologica venduti a prezzi accettabili grazie sia a un’alta produttività, sia alla sistematica compressione dei livelli salariali negli ultimi anni. A tenere relativamente bassi i salari contribuiscono sia il continuo ricatto della dislocazione di pezzi di produzione nel ”cortile di casa”, sia la diffusione di forme di lavoro precario, dell’Europa centro-orientale, sia la ”flessibilizzazione”, delle tariffe contrattuali (dove valgono ancora quelle sindacali) a seconda delle vicissitudibi delle aziende, sia la riduzione degli assegni di disoccupazione e dell’assegno sociale (decisa a suo tempo dal cancelliere Schröder), che costringe a accettare lavori pagati meno di 5 euro l’ora. Secondo una statistica europea nel 2008 i redditi da lavoro in Germania sono saliti in termini reali solo dello 0,1%, nel 2007 arretrarono perfino dello 0,1%. mentre nella media europea i salari sono saliti nel 2008 dell’1,3% e del 3,6% nel 2007.
A mettere radicalmente in discussione questo modello sono solo i socialisti della Linke, che pensano si debba inverire la rotta redistribuendo la ricchezza sociale (la forbice tra ricchi e poveri si è andata allargando in Germania nell’ultimo decennio) in modo da poter sostituire (almeno in parte) la domanda esterna con quella interna. Sia domanda pubblica di nuovi servizi di qualità (trasporti, scuola, salute), e di bene d’investimento (energie rinnovabili e risparmio energetico). Sia domanda privata di beni di consumo, sorretta dall’aumento dei salari, facendo leva sull’introduzione per legge di un salario minimo, che la Linke vorrebbe di 10 euro l’ora. Pure la Spd ora lo chiede, anche se più moderatamente si accontenterebbe di 7,5 euro.
Paradossalmente a dar man forte a Oskar Lafontaine, ci si sono messi ora anche i governi britannico e statunitense. Alla vigilia dell’incontro del G20 a Pittsburgh, il premier Gordon Brown ha sostenuto che occorre ridurre alcuni squilibri nell’economia mondiale: Cina e Germania dovrebbero esportare di meno e consumare di più. E il presidente Usa Barack Obama, sulla stessa lunghezza d’onda, ha confermato anche lui prima del vertice di Pittsburgh l’interesse del suo governo a una riduzione degli squilibri tra paesi importatori e esportatori. L’idea di fondo è che i consumatori statunitensi e britannici la smettano di indebitarsi, come facevano troppo volentieri alimentando la bolla del credito, e che tedeschi e cinesi (nonché giapponesi) la smettano di lesinare e risparmiare.
Michael Froman, capodelegazione di Obama per il G-20, il gruppo di paesi che si propone di riorganizzare e regolare meglio la finanza globale, lo spiega cosi: «Se negli Usa lo stato e le famiglie risparmieranno di più, si ridurrebbe la crescita economica mondiale, a meno che altri paesi del G-20 non facciano una politica di espansione della domanda».
Gira e rigira siamo di nuovo alla ricerca della ”locomotiva” per trainare la congiuntura internazionale. Già nel 1978 I’allora cancelliere Helmut Schmidt se lo senti chiedere dagli americani. Lusingato, lanciò un programma di investimenti pubblici. Ma due anni dopo si ripropose una recessione più grave, e la Germania si trovò a affrontarla con un debito accresciuto.
A Brown ha risposto malamente il ministro delle finanze tedesco, il socialdemocratico Peer Steinbrück: «E già, con i nosti soldi noi dovremmo disincagliare dalla palude la sua economia, che sta peggio di tutte le altre. Ma noi non butteremo alle ortiche le nostre nuove regole frenadebito, solo perchè gli inglesi pensano che rallentano il consumo mondiale». Steinbrück fa riferimento a un emendamento costituzionale, approvato la primavera scorsa, che in tempi ”normali” imporrebbe allo stato federale un tetto del deficit pari allo 0,35% del Pil, dal 2016, e ai Länder bilanci in pareggio, a partire dal 2020.
La stampa economica anglosassone, soprattutto il Financial Times, ha preso molto sul serio questo nuovo regolamento. Forse troppo sul serio. In Germania a molti è sembrato una sparata retorica, irresponsabile anche perchè strumentalizza la Costituzione per una gag propagandistica. la nuova regola prevede ovviamente eccezioni in periodo di grave crisi. E non è detto che regga l’esame della Corte costituzionale, cui sono ricorse le opposizioni di due parlamenti regionali nel decidere sui loro bilanci.
Più che alle fanfaronate di Steinbrück occorrerebbe guardare ai fatti. Secondo l’ufficio statistico federale, nel primo semestre del 2009 il debito pubblico complessivo (Bund, Länder, comuni) è salito di 87 miliardi a un totale di 1.602 miliardi di euro. Il contributo del Bund al nuovo indebitamento è di 71,7 miliardi di euro. Realisticamente a fine anno il deficit dello stato federale si avvicinerà ai cento miliardi, e probabilmente li supererà nel 2010.
Il governo Merkel ha varato due pacchetti di sostegno alla congiuntura, il primo per un volume di 30 miliardi di euro, il secondo per 50 miliardi di euro. E a tutela dei depositi bancari ha stanziato ben 480 miliardi di euro per fondi di garanzia. Nessuno sa quanti di questi miliardi dovranno essere effettivamente spesi, il rischio è notevole. Insomma la grande coalizione - contraddicendo la sua iniziale politica monetaristica - un po’ di lavoro keynesiano l’ha fatto. E Merkel ha promesso che, se sarà rieletta, non smetterà di colpo: «Sarebbe sbagliato soffocare la ripresa, con una smania esagerata e unilaterale di risanamento dei bilanci».