Francesca Bonazzoli, Corriere della Sera 19/9/2009, 19 settembre 2009
di FRANCESCA BONAZZOLI Non c’è tema, più dell’indagine del volto, che possa sfidare il pittore mettendone alla prova l’abilità di imprigionare la vita, di catturare ciò che è per eccellenza imprendibile perché in perenne mutamento, già passato mentre è
di FRANCESCA BONAZZOLI Non c’è tema, più dell’indagine del volto, che possa sfidare il pittore mettendone alla prova l’abilità di imprigionare la vita, di catturare ciò che è per eccellenza imprendibile perché in perenne mutamento, già passato mentre è. I più talentuosi sono stati Velázquez e Goya, forse perché hanno intinto il pennello nei timbri foschi della bile nera – così gli alchimisti chiamavano la malinconia – che acuisce i poteri introspettivi. Non stupisce, dunque, che sia stato Velázquez il primo a dipingere la malattia mentale: lo fece per curiosità professionale, o forse per amore. Che bisogno aveva infatti lui, il pittore dei reali di Spagna, di dedicare energie a ritrarre i matti che circolavano nei palazzi reali? E invece Velázquez li dipinse senza mai sfregiarli col ridicolo, ma donando a quei volti deformi la stessa austerità decorosa dei sovrani. Il Cabalacillas demente con gli occhi strabici o il ragazzo di Vallecas, oligofrenico e idrocefalo, hanno negli occhi la medesima dignitosa domanda del principe infante Felipe Pròspero, destinato alla morte precoce, o di Filippo IV a Fraga, comandante ormai disilluso di un’Armada che si fregiava una volta del titolo di invincibile. Per secoli la malinconia, figlia di Saturno, fu considerata una malattia non dissimile dalla pazzia e fu solo nell’800 – quando gli studi di Cardano, Della Porta, Le Brun vennero via via integrati e superati da approcci diversi, a cominciare da quello di John Locke nel suo «Saggio sull’intelletto umano», e poi da quelli condotti dal Lavater o dal Lombroso – che il positivismo cominciò a far piazza pulita dei motivi magici e irrazionali che ancora scorrevano sotto la cultura illuministica (gli stessi che nutrivano il pensiero romantico e le fisionomie esasperate dei busti di Franz Xaver Messerschmidt). La fisiognomica virò verso l’antropologia, la criminologia, la psicologia e la neurologia e soprattutto verso l’osservazione clinica. Fra pittori e medici si creavano collaborazioni anche per illustrare le pubblicazioni scientifiche: Théodore Géricault, per esempio, dipinse la celebre serie delle teste di alienati per Esquirol, medico che nel 1802 fondò un istituto per malati di mente, o forse per il dottor Georget, capo dell’ospedale della Salpêtrière. Géricault ha un approccio realistico, che non scivola mai nell’aneddotico o nel letterario, esattamente come in quel periodo non si parlava più di possessioni diaboliche, ma di patologie curabili. Quello dell’alienazione mentale cominciava ad essere per la prima volta percepito non più come un problema individuale, ma come un tema sociale, al pari delle condizioni dei lavoratori o dei carcerati, problemi legati all’emarginazione che venivano messi in primo piano dalle idee anarchiche e socialiste di Marx, Blanc, Bakunin, Proudhon. E infatti quando Telemaco Signorini, seguace delle teorie di Proudhon, si misura con la follia, ha un approccio più da denuncia sociale rispetto a quello «clinico» di Géricault: il suo dipinto «La sala delle agitate al San Bonifazio di Firenze» è più leggibile nel clima delle istanze veriste che in quello scientifico dell’osservazione clinica, tanto è vero che descrive una stanza, un’atmosfera, non singoli volti. In quegli anni anche Van Gogh, registrata la propria impotenza nell’impegno sociale fra i contadini dove si era gettato con slancio mistico, riversa il malessere dei diseredati nel proprio autoritratto. La sua follia diventa tutt’uno con il dolore del mondo. La sua denuncia, il suo autoritratto. Velázquez aveva dunque dipinto la follia con lo sguardo della pietas; Géricault con l’occhio clinico; Signorini con il desiderio di denuncia sociale e Van Gogh identificando la propria follia con quella del mondo. Solo una manciata di anni dopo, esattamente nel 1900, Freud pubblica «L’interpretazione dei sogni». Da quel momento, nel secolo di due carneficine mondiali, dei campi di sterminio e dei gulag, si comprende che la follia è l’Uomo stesso. Non l’arte potrà dirsi degenerata, ma il mondo. © RIPRODUZIONE RISERVATA Interpretazioni Seguace di Proudhon, Signorini vide nella condizione dei matti rinchiusi in manicomio un’emarginazione pari a quella dei lavoratori sfruttati e dei carcerati. Van Gogh ne fece l’emblema del dolore del mondo